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Da Città del Messico, parlano Jon Bon Jovi e Richie Sambora...

Esce questa settimana “One wild night”, disco live del rocker del New Jersey. Il disco è stato presentato in anteprima lunedì 7 maggio sulle frequenze di Radiouno.
Quella che segue è la trascrizione dell’intervista esclusiva che Massimo Cotto ha svolto a Città del Messico con il leader della band Jon Bon Jovi e il chitarrista Richie Sambora.


Questo e’ il vostro primo album dal vivo in 18 anni. Un live e’, solitamente, una bella occasione per guardare indietro, ma anche l’opportunita’ per guardare avanti.
Jon Bon Jovi: I nostri fans di vecchia data volevano un album dal vivo da molti anni, ma abbiamo sempre rimandato l’idea. I motivi erano molti, primo fra tutti la nostra prolificita’. Abbiamo sempre scritto molto e molto in fretta. Ci siamo convinti quando abbiamo capito che “Crush”, il nostro ultimo album da studio, aveva conquistato nuove generazioni di fans piu’ giovani. La domanda che ci siamo posti, a quel punto, e’ stata: come avvicinare i fans più giovani ai nostri primi nove album. Non volevo pubblicare un altro Greatest Hits, perché troppo poco tempo era trascorso dal precedente, così ci siamo decisi. E il risultato e’ stato un disco che ci rappresenta per quel che siamo e non per quanto abbiamo venduto, tanto che almeno sei o sette brani che hanno scalato le classifiche nemmeno compaiono. E’ come un album di fotografie, che cattura alcuni momenti importanti, come la versione di “I Don’t like mondays” con Bob Geldof, e quella di “Rockin in the free world” di Neil Young, con Nelson Mandela appena uscito di prigione. Alcuni brani sono stati registrati nei club, altri negli stadi. Un buon lavoro.

L’assenza assoluta di ballate rappresenta la voglia di mostrare un altro lato di Bon Jovi?
Jon Bon Jovi; Se avessimo inserito le ballate e i grandi successi, ovvero tutte le canzoni che hanno raggiunto il primo posto nelle classifiche, non sarebbe bastato un disco doppio, e il costo sarebbe stato eccessivo. Abbiamo chiesto alla nostra casa discografica di abbassare il prezzo del cd e loro ci hanno consigliato di ripiegare sul cd singolo. E’ stato un negoziato difficile. Sarebbe stato più semplice convincere Bush a ritirare le truppe americane da Taiwan (risate). Volevo che il live rappresentasse il nostro lato più energico, non che fosse “pieno” di cose. Qualcosa in cui credere, come il brano in duetto con Geldof, assolutamente unico.

“I Don’t like mondays” e’ stata registrata in occasione del decennale di Live Aid. Tutto e’ cambiato da allora: dal punto di vista musicale, sociale, anche personale.
Richie Sambora: Live Aid ha introdotto su larga scala l’impegno sociale nella musica, attraverso la sensibilizzazione. Il grande merito di Geldof è stato quello di dire: facciamo qualcosa e facciamolo subito, non limitiamoci a dire che ci dispiace sapere che in Africa si muore di fame. Da quel momento, il rock ha acquisito un nuovo spessore, una diversa consapevolezza che ha agito su due fronti: l'intervento diretto, rappresentato dagli artisti che scrivevano canzoni socialmente rilevanti e di impegno; e quello indiretto, con gruppi come il nostro che, pur senza impegnarsi in qualcosa di specifico, riflettevano la necessità di dare qualcosa di più. Non a caso, i nostri anni novanta si sono aperti con un album che s’intitolava “Keep the faith”, perché la fede va nutrita e alimentata, in qualcuno o in qualcosa. Anche “These Days” conteneva riferimenti sociali più evidenti che in passato. Con Live Aid siamo cambiati ed evoluti.

Live Aid è stato un punto di svolta nel rock. Prima di esso, il rock si ribellava contro qualcosa, dopo Live Aid anche a favore di qualcuno.
Jon Bon Jovi: Punto di vista interessante. Per me Live Aid è stato, esattamente come Woodstock, un festival di pace, amore e musica. Un punto d’incontro tra persone e generi, più che una ribellione. Era presente anche l’aspetto della rivolta contro l’indifferenza, questo è indubbio, ma non è da sottovalutare l’altro elemento. Puoi combattere il buio solamente con la luce. La ribellione non passa, anche se viene espressa in maniera diversa. Nei Cinquanta c' era Eddie Cochran con “Summertime blues”, nei Sessanta Pete Townshend con MY GENERATION, nei Settanta è stata la volta dei Sex Pistols con “Anarchy In The UK” o con God Save The Queen”. Si è molto attenuata, purtroppo, nei tardi anni Novanta. Oggi è Grande Fratello, più che Grande Ribellione. Il contatto umano è sparito, e questo mi terrorizza. Pensa alle case discografiche. Pensa alla nostra. Non so nemmeno pronunciare i nomi dei proprietari. Per conto mio, potrebbero anche produrre acqua del cesso. Ero abituato a chiamare a casa le persone, a stringere loro la mano. Oggi non so nemmeno in quale paese vivono, potrebbero essere anche qui dietro a una tenda, a Città del Messico. Folle.

Torniamo all’album dal vivo: Jackson Browne, quando cantava The Road di Danny O’Keefe, diceva che le strade, gli alberghi, la gente, tutto oramai e’ uguale, si confonde. E’ vero?
Jon Bon Jovi: In parte sì, è diventato un villaggio globale, mi spiace usare un termine abusato. Quando iniziammo, le cose erano diverse: andavi in Giappone e vedevi che le persone avevano un modo di comportarsi tutto loro, che non avevi mai visto in altre parti del mondo. Oggi Tokyo assomiglia a Los Angeles, che a sua volta assomiglia a Vancouver. Solo in Europa siete diversi, anche perché prestate maggior attenzione alle liriche, ai testi. Stupefacente, davvero. Gli americani mandano a memoria il ritornello, voi conoscete tutte le strofe. Alcuni momenti speciali sopravvivono: quando siamo andati a suonare in India, ad esempio, nel 1995, abbiamo notato una spiritualità commovente, accompagnata da una totale assenza di invidia, nonostante il 60% della popolazione non avesse nemmeno una casa. In India le persone vivono in un bellissimo e magico stato di grazia. Commovente.

Noi prestiamo molta attenzione alle parole, e’ vero.
Jon Bon Jovi: Sì. E non sono nemmeno nella vostra lingua, il che rende ancora maggior merito.

Forse prestiamo tanta attenzione proprio perché non siamo sicuri di capire tutto.
Jon e Richie insieme: Forse.

Tom Waits, in una delle sue prime canzoni, “San Diego serenade”, diceva: Non ho mai visto la costa est fino a quando non mi sono trasferito in quella ovest. Lo stesso sembra capiti a voi: girate il mondo, ma tornate sempre a casa, nel New Jersey, dove ancora vivete. Non volete staccarvi dalle radici?
Jon Bon Jovi: Verissimo. Abbiamo trascorso la nostra adolescenza, la nostra giovinezza tentando di scappare via, oggi viviamo la maturità cercando di tornare indietro. Per me, New Jersey è casa, è quello che so, è quello che sono. Ho avuto la fortuna di trascorrere molto tempo in luoghi affascinanti: qui a Città del Messico, all’inizio dell’anno, ho vissuto dieci settimane, per girare un film; e lo stesso periodo ho trascorso a Roma. Città incantevoli, ma dove non mi trasferirei mai a vivere. Voglio la mia gente, gli amici e la famiglia, le persone con cui giocare a calcio e le ragazze. Voglio casa.

Ascoltandovi, a volte, si ha l’impressione che vi divertiate come foste ancora una garage band, nonostante ora suoniate negli stadi, famosi in tutto il mondo; non avete mai cambiato formazione in 18 anni. Tornate sempre insieme anche dopo le divagazioni solitarie. Il gruppo: è questa l’essenza del rock and roll?
Per noi, certamente. Il rock and roll, il nostro gruppo sono qualcosa che non puoi dividere con i genitori, i parenti e nemmeno con tua moglie. I Bon Jovi sono una band che ha scalato la montagna con lo stesso gruppetto di amici, e nessuno di noi ha intenzione4 di tornare a valle da solo. Se il nostro cammino è stato glorioso, pur tra alti e bassi, non è per via dei dischi venduti ma perché abbiamo raggiunto questi risultati insieme. Se nella nostra band fossero passati Jeff Beck ed Elton John, oggi guarderemmo al passato come a tanti piccoli momenti da ricordare; ma con un pugno di persone con cui hai diviso tutto in 18 anni, guardi al cammino fatto come a un solo viaggio fatto di tante meraviglie vissute insieme.

Southside Johnny continua a cantare nonostante il mondo continui a ignorarlo. Bruce Springsteen continua a fare quel che gli piace, anche quando e’ lontano dal commerciale, vedi Nebraska e The Ghost of Tom Joad. Steve Van Zandt ha lasciato la E Street nel suo momento di maggior successo perche’ sentiva di doversi impegnare in qualcos’altro. Essere nati e cresciuti nel New Jersey vi rende diversi, pi§ determinati e diretti?
Richie Sambora: Difficile rispondere, perché non siamo nati in un altro luogo, ma, certo, quel che dici ha un senso. Il New Jersey e’ un posto onesto, per crescere. Molto terra terra.
Jon Bon Jovi: Porteremo con noi Southside Johnny in Europa. Aprira’ i nostri concerti. Ha mantenuto lo stesso spirito che lo ha spinto quando iniziò: per lui la musica era la vita stessa, niente e nessun altro poteva sostituirla. E Bruce Springsteen… Ha raccolto tonnellate di denaro e successo, ma continua a fare dischi in cui crede.. Steven, per tutti quanti noi, dai Bon Jovi a Bruce, è sempre stato la voce della libertà. Per rispondere alla tua domanda, penso che la gente del New Jersey abbia in comune un’onesta’ di fondo che li spinge a fare solo ciò in cui crede. La nostra musica può piacere o non piacere: ma e’ onesta. E questo e’ il modo più bello che noi abbiamo a disposizione per definire le nostre canzoni. Bisogna avere la forza di perseverare e di accettare le sconfitte e le privazioni. Quando avevo 13 anni, perseguitai i miei genitori per un anno intero: desideravo una chitarra come nient’altro al mondo. Quando arrivò Natale, pensai che fosse arrivato il momento tanto desiderato. Aprii il pacco e dentro c’era un altro regalo, non la chitarra. Rimasi deluso, ma dissi: “Aspettavo una chitarra, ma va bene lo stesso, arriverà un’altra volta”. I miei genitori sorrisero e tirarono fuori una chitarra fiammante da sotto il divano. L’avevano nascosta per vedere come reagivo alla delusione. Mi hanno insegnato molto, in quell’occasione, anche se ho avuto modo di capirlo solo qualche tempo dopo.


(Massimo Cotto)

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