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Nonostante abbia sempre avuto una certa diffidenza verso i quotidiani ("Al massimo mi sono prestato come esterno", spiega), Riccardo Bertoncelli è indubbiamente la prima "firma" del giornalismo musicale italiano: già una ventina di anni fa lo capì Francesco Guccini, che lo immortalò nella "Avvelenata".

Per personalità e modo di intendere il mestiere, Bertoncelli è anche l’unico a potersi permettere il divertimento un po’ narcisista di un "greatest hits", il libro "Paesaggi Immaginari" (Editrice Giunti), che raccoglie articoli scritti qua e là a ruota libera. Gli abbiamo chiesto di raccontarci la genesi di questo "cofanetto di successi" in una interessante chiacchierata sulla musica ma soprattutto sulla critica musicale.

Difficilmente altri critici musicali italiani potrebbero firmare una propria antologia di articoli. Perché Bertoncelli lo può fare?

"Forse ho avuto una fortuna - o un merito, o tutti e due: ho cominciato prima di tutti gli altri. Ho iniziato a fare il "critico rock" nel ’69, quando il mestiere non esisteva e i complessi rock erano trattati da giornalisti generici. E dal momento che ho sempre amato scrivere, ho sempre dato molto respiro ai miei pezzi, sia che scrivessi su "Gong", su "Linus", "Musica ‘80" o "Rockerilla". Nella maggior parte dei casi questo mi è stato consentito anche dal fatto che scrivevo per dei mensili. Oggi nei quotidiani quando il caposervizio chiede "un pezzo lungo" si aspetta al massimo quaranta righe. Il che rende probabilmente più difficile, oltre che esprimere una propria opinione, anche farsi notare da chi legge".

 

Come è cambiata la critica in questi anni?

"E’ cambiata prima di tutto la musica. E poi i suoi ascoltatori. L’ascoltatore cui io mi rivolgevo era onnivoro, poteva ascoltare tutto e poteva essere affascinato da tutte le musiche, tant’è vero che oggi vediamo come una generazione partita dal rock sia arrivata ad apprezzare la musica etnica. Oggi i critici sembrano inclini a iperspecializzarsi all’interno dei generi. Non c’è più voglia di considerare il panorama nel suo complesso e di sposare certe cause. Il mio libro peraltro prende posizioni smaccatamente partigiane, ma non solo per i miei incrollabili convincimenti. Confesso di aver cercato un certo "understatement"...Insomma, mi sarebbe piaciuto anche essere smentito, ma non è successo. Però mi rincresce che mi rinfaccino sempre di non motivare i miei giudizi. Certo, a volte mi faccio prendere. Ma se da giovane mi piaceva staccare teste per il gusto di farlo, oggi sono più tranquillo. Vedo tra l’altro che questo gusto della stroncatura si è perso. Male. Sarà difficile essere credibili e dare un utile contributo alla causa, seminando dubbi qua e là".

 

Ma ogni tanto si ha la sensazione che certe "inimicizie" siano eterne e dettate da rancori personali...

"Ho affrontato questa cosa in un articolo che compare in "Paesaggi immaginari": per me, David Bowie è "il grande antipatico". Al di là degli alti e bassi della sua produzione, il camaleontismo che è considerato il suo pregio me lo fa considerare un doroteo interessato soprattutto a stare a galla. Poi ci sono i Rolling Stones, che non ho mai considerato tra i grandissimi. Credo che non abbiano mai avuto scintille di vero genio, e siano sempre stati molto derivativi, anche se nel loro caso la grandezza si trova nel modo di esporre. Ma quello che non molti hanno capito è che io ho cercato di farmi un’idea della personalità di chi avevo di fronte: credo ad esempio che Frank Zappa sia stato per certi versi uno straordinario qualunquista americano - lui mi avrebbe considerato un masturbatorio intellettuale europeo. Anche Bob Dylan, sì, ha fatto cose stupende, ma a me piace indicare i punti bui. Non lo fa più nessuno. C’è un atteggiamento del tipo: "Mi piace, quindi riposi in pace".

 

I fans continuano ad arrabbiarsi?

"Assolutamente sì. Pochi giorni fa ho scritto un articolo sulla PFM, che ho sempre maltrattato perché ero nemico giurato del progressive. Poi col passare del tempo ho rivalutato gruppi come i King Crimson, e allo stesso modo il fatto di odiare i Genesis non mi ha impedito di apprezzare Peter Gabriel. E comunque, quando ho conosciuto la PFM mi sono trovato di fronte a persone serie e innamorate di quello che fanno, anche se loro cose sono sempre state un po’ logorroiche. Sta di fatto che averli apostrofati, in modo tutto sommato benevolo, "depravati capelloni con mellotron", mi è arrivata una lettera di un appassionato offesissimo".

 

A proposito, negli anni ’70 Riccardo Bertoncelli era uno dei più accaniti fustigatori della musica italiana. Oggi?

"Ho una posizione un po’ più sfumata. Allora ero incattivito perché consideravo il rock italiano anni ’70 come una scopiazzatura di quello angloamericano. E non credevo alla buona fede. Poi ero totalmente innamorato dei modelli esteri e della loro superiorità. Gradualmente mi sono reso conto dell’originalità di artisti italiani come Paolo Conte, Fossati, De Andrè, oggi dei CSI".

 

Anni fa, con Franco Bolelli, avete scritto un libro intitolato "Musica da non consumare", che si rivelò piuttosto anomalo nell’editoria musicale di quel periodo. Poi non avete più ripetuto la cosa. Forse perché oggi il "consumo" è dato per scontato?

"La fruizione è innegabilmente cambiata, e siamo tutti un po’ più disinvolti nell’uso e nell’ascolto della musica. Io so che sono più distratto di un tempo, ma mi accorgo che spesso è la musica medesima che si indirizza verso un diverso tipo di ascolto".

In quel libro avevate indicato i vostri dischi preferiti per gli anni ’70. Non vi torna la tentazione, dato che incalzano la fine del decennio oltre che del secolo?

"Ogni tanto l’idea torna, certo, ed è vero che tra poco si scatenerà la corsa ai dischi del secolo. I "Cento dischi", i duecento fondamentali... La realtà è che ci vorrebbe una guida sui mille dischi da collezionare, e cento non bastano. Quello della "discoteca di base" del rock - come della classica - è un vecchio mito anni ’70. Oggi potrei nominare cento dischi che vanno da un estremo all’altro, dal rockabilly all’elettronica, ma troppe opere importantissime rimarrebbero escluse. Vorrei cercare di non partecipare alla gara. A ottobre invece uscirà il secondo volume dell’enciclopedia del rock, nella quale tenteremo di operare una scelta violentemente selettiva su cosa è rock e cosa no".

 

Uno sporco lavoro...

"Ma qualcuno deve farlo - se continuiamo a pensare in termini di rock. E io credo che si avvicini il momento in cui potremo fare a meno di questa parola, che ha avuto successo ma è vecchia, è stata inventata 50 anni fa. Oggi è vecchio quanto è stato inventato 50 settimane fa. La parola rock non ha più senso, non possiamo più permetterci di forzare ancora un termine legato alla somma di tradizioni rhythm’n’blues e country, e comprendervi anche i Chemical Brothers".

 

Serve un termine nuovo.

"Techno è stato svilito come termine, ma penso che si possa adattare a quanto ascoltiamo oggi. Oppure "post-rock!".

 

A proposito di termini, c’è una parola magica che ricorre in continuazione negli ultimi anni: "Contaminazione". Critici e musicisti la utilizzano esageratamente, magari anche come alibi. Sopravviverà anche negli anni ’90?

"Effettivamente non mancano quelli che fanno schifezze ma proclamano orgogliosi di essere dei "contaminatori". Comunque si va in quella direzione, il concetto di genere va buttato via. Mi viene in mente una cosa detta da Peter Gabriel: "Non dobbiamo pensare che i musicisti esteri siano puri e immuni da quanto abbiamo fatto noi in occidente. Non andiamo ad attingere a repertori sacri". Ed è vero: il reggae nasce dalla cattiva imitazione che i batteristi caraibici facevano del rhythm’n’blues. Non ci riuscivano, e allora inseguivano il tempo. Più che musica giamaicana, era l’Africa vestita d’America che veniva introdotta in Giamaica".

 

"Paesaggi immaginari", come dice il titolo, evoca una sorta di età dell’oro del rock, in cui il lupo era amico dell’agnello, il latte scorreva nei fiumi, e Dylan e la Band si trovavano a Big Pink, oppure Dave Crosby ospitava tutta la West Coast in casa sua... Questa mitologia del rock sarà ancora possibile, oppure non si potrà più fantasticare dei propri idoli?

"Il vecchio mondo è sempre più affascinante da raccontare...Gli anni ‘50 e ‘60 erano un territorio vergine, da dissodare e conquistare. E le biografie non esistevano: non sapevamo quasi nulla dei nostri eroi, dovevamo lavorare soprattutto sulle emozioni, e su rare notizie che ci arrivavano con ritardi oggi impensabili. Oggi non è più così. E non solo: la musica viene fatta dagli strumenti più che dai musicisti, anche per scelta di questi ultimi che intendono spiazzarci. Infine, non c’è territorio che non sia stato esplorato a fondo, non sono più possibili pionieri né "generi". La somma di questi fattori fa sì che predomini un atteggiamento di già visto e già sentito che finisce con l’attribuire ai musicisti del passato uno spessore diverso rispetto a quelli del presente. E’ difficile anche per un critico avere una prospettiva storica, anche se molti colleghi continuano a dar ragione delle musiche che sorgono, a volte facendo i giovanilisti a tutti i costi. Onestamente non posso dire che molti dei dischi che mi sforzo di ascoltare mi piacciano. Penso che ognuno di noi sia legato a una o più musiche, ma abbia un suo imprinting, destinato a condizionarlo. Io sono legato a rock e jazz classico; pur ascoltando tantissimi nuovi gruppi, i miei amori sono quelli".

 

La cosa induce a una domanda in parte impertinente: i critici rock di una certa età hanno il diritto di rivolgersi ai giovani e consigliare gruppi che non esistono più, oppure di distruggere i loro gruppi preferiti?

"Mi sono posto il problema pensando agli Oasis. Tutti noi da giovani abbiamo sentito dire: "La musica di oggi non vale niente, una volta sì...". Quando ho iniziato ad ascoltare jazz, i critici rievocavano gli anni ’30 e non si interessavano di Charlie Parker, John Coltrane, Miles Davis e altri grandissimi che magari avevano proprio sotto il naso. E a furia di sentirsi dire "Ascolta la musica di una volta" si ottengono gruppi come gli Oasis che hanno ascoltato Kinks e Beatles fino all’indigestione. Tuttavia non insisterei a dire che i gruppi nuovi si ispirano a quelli vecchi. La musica va molto velocemente, e già si notano le evoluzioni di certe correnti".

 

Assediati come sono da musica per radio e per video, i ragazzi discutono ancora di musica oppure la consumano e basta?

"Credo che i ragazzi degli anni ’90 si siano trovati di fronte a un mondo diventato enorme, che propone mille percorsi da seguire. Vent’anni fa, avendo 500 dischi in casa si aveva tutto. Oggi chi ha in casa 5000 dischi potrebbe essere in possesso di 5000 dischi inutili. Entri in negozio, sei frastornato dall’offerta, non riesci ad orientarti e lasci perdere. Però mi pare che sì, i ragazzi parlino ancora di musica. Per fortuna".

 

Chiusura inevitabile (forse): nomi su cui puntare per il duemila?

"Difficile dire. Non amo il britpop, e non saprei dire se e quale dei gruppi arrivati con tale ondata possa evolversi. In compenso sono rimasto molto colpito dal disco dei Gomez. Ne parlavo con Ligabue, anche lui grande appassionato. Mi piace anche il post-grunge dei Mayfield Four: non nuovissimo ma molto divertente. Ma la realtà è che continuo a stupirmi di Fred Frith, e trovo molto interessante anche l’ultimo di Dylan. Insomma, questi vecchi dinosauri oltre ad essere una presenza ingombrante stanno ancora dicendo la loro".

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