
In “A bigger picture” il tuo organo è un po’ meno in primo piano rispetto al solito. Volevi dare maggiore risalto alle canzoni e all’insieme?
L’intenzione principale era quella di non ripetermi. Non c’è motivo di insistere su una formula particolare, c’è una vasta area musicale a cui si può attingere. Per riuscire a fare qualcosa di nuovo, bisogna tenere la mente aperta verso idee diverse, altri modi di lavorare. Oltre a questo, l’album riflette anche quello che è accaduto nella mia vita negli ultimi anni. Avevo parecchio materiale, cinquanta canzoni. Ho registrato trenta di queste, dalle quali sono uscite le tredici finite sul disco.
Qual è stato il criterio di selezione?
In questi casi, si tratta sempre di trovare un compromesso. Scrivi molto, ma sai che solo una parte di quello che hai fatto andrà sul disco, e ovviamente la casa discografica ha voce in capitolo nella decisione finale. Si finisce quasi sempre con lo scontrarsi, e questa volta i litigi sono stati molto duri, infatti abbiamo deciso di rompere il rapporto con la Gut records, che fa uscire l’album in Inghilterra. Per fortuna con la V2, che si occupa della distribuzione internazionale, le cose vanno molto meglio. Il problema fondamentale è che molta gente nelle discografiche inglesi non sa proprio quello che fa, è totalmente incompetente, e diventa difficile lavorare se hai a che fare con persone del genere. Quando c’è rispetto reciproco con i discografici, tutto è più semplice.
Un aspetto particolarmente evidente in “A bigger picture” è una sterzata verso il soul/r’n’b. Yvonne Yanney ha una bella voce, e ci sono varie hit potenziali, a cominciare da “Believe”...
Sì, in Giappone è già una specie di hit. Come è ovvio, sono molto contento quando il pubblico apprezza quello che faccio, ma la mia idea di successo comincia in studio. Se quello che registro mi entusiasma, ha un suono che mi piace, per me è già un successo. Quando arriva anche il riscontro della gente, sono felice, ma il fatto di suonare non è legato a una questione di vendite. Non voglio sembrare snob, è chiaro che mi piacerebbe essere al numero uno nelle classifiche di tutto il mondo. So che non accadrà, ma non importa, dal momento che sono soddisfatto di quello che suono. Non ci sono canzoni concepite allo scopo specifico di vendere dischi. In “Believe” cerco di lanciare un messaggio: ama te stesso. Probabilmente, quella con se stessi è la relazione d’amore definitiva. Non è possibile avere un rapporto con un’altra persona se non si ha prima rispetto di se stessi.
Prima hai accennato a questioni personali che hanno a che fare con la musica dell’album. A cosa ti riferisci esattamente?
Ci sono un paio di pezzi strumentali che hanno a che fare con le droghe: “Chasing dragons” allude all’eroina, “Mr. C” alla cocaina. Ho avuto problemi con droga e alcool, e ne sono uscito un paio di anni fa, quando ho cominciato a scrivere le canzoni di questo album. L’ispirazione mi è venuta soprattutto da tutte le cose positive che mi hanno aiutato a superare le difficoltà. Per quel che mi riguarda, si è trattato di crescere dal punto di vista personale. Nel music-biz molti scappano dalle responsabilità, non si comportano da adulti, e la droga diventa una parte di questo atteggiamento: è un modo per nascondersi, per evitare di crescere. La cocaina in particolare è una droga molto subdola da questo punto di vista.
Sei stato uno dei musicisti che ha contribuito all’esplosione dell’acid jazz. Cosa resta oggi di quella scena?
In verità non molto: quelli che erano coinvolti nell’acid jazz sono cresciuti, qualcuno ha avuto dei figli, si sono occupati di altre cose. Si può considerare un fenomeno completamente morto, ma può rinascere ancora qualcosa di simile. Penso che il jazz/funk, da cui il movimento è partito, possa continuare a suscitare interesse, perché si tratta di ottima musica. Anche adesso che l’entusiasmo sembra svanito, c’è sempre uno come Jamiroquai, che vende milioni di dischi con uno stile basato proprio su quel tipo di cose. A lungo termine, il jazz/funk verrà riconosciuto come qualcosa di buono, e potrà dare origine ad altre novità: probabilmente non si chiamerà più acid jazz, ma sarà comunque interessante, a prescindere dal nome.
Facciamo un piccolo salto nella preistoria. Hai cominciato nei Prisoners, che erano uno dei migliori gruppi inglesi degli anni 80, ma non sono riusciti a sfondare. So che fate ancora dei concerti: è solo nostalgia o avete voglia di riprovarci?
Penso sinceramente che i Prisoners meritassero di più: lo scioglimento non è stata una mia idea, io volevo che il gruppo continuasse. Ci divertiamo ancora molto quando suoniamo insieme, ed è questo il motivo per cui ogni tanto saliamo su un palco. Non posso negare che ci sia anche una certa nostalgia: eravamo giovani, è stato un bel periodo. Se non ci fossimo sciolti, penso che avremmo avuto successo su larga scala.
Per te si è trattato solo di tempo, visto che il James Taylor Quartet è esploso più o meno subito.
Già, ma quello che è accaduto al Quartet poteva succedere anche ai Prisoners. E’ stato davvero un peccato che le cose siano andate in quel modo.