Chi la sente e la vede in concerto non può avere molti dubbi: Cree Summer è cresciuta sotto la protezione di Lenny Kravitz, produttore del suo album di debutto. L’abbiamo incontrata, e inevitabilmente si è parlato molto del suo pigmalione, che l’ha portata con sé in tour come supporter.Com’è suonare davanti a tanta gente con un solo disco all’attivo?
«In effetti finora sto suonando come supporter di altri artisti, specialmente Lenny. Nelle prime due canzoni percepisco che il pubblico mi sta esaminando. Poi, si mette a suo agio - e io con lui. Mi aiuta molto il primo brano che suoniamo: è un canto tradizionale di ringraziamento degli indiani Peyote. Mi calma. Anche perché ho il cuore di gomma e ho paura di tutto. Rimango sempre affascinata da come si può avere tanta paura e alla fine farcela ugualmente».
A cosa ti sei ispirata per scrivere i testi?
«Preferisco non parlarne: non credo che le canzoni vadano spiegate».
E’ un punto di vista rispettabile.
«Posso fare un’eccezione: qual è il pezzo che ti è piaciuto di più del mio disco?».
Direi “Angry boy”.
«E’ un brano che descrive come a noi ragazze piacciono i duri con moto e sigarette. Pensiamo sempre che se si mettono con noi sia una nostra conquista, che siamo speciali perché riusciamo ad addolcirli. Il che non è vero, ma è bello crederci».
Lenny è così?
«No, lui è un gattino. E’ divertente, scherza in continuazione. E’ inutile negare che ha cambiato la mia vita: non avrei mai pensato di essere qui. Dice che si rivede in me, gli ricordo quando era giovane. La sua principale influenza su di me è stato nel modo di cantare. Mi ha insegnato a lavorare maggiormente sul timbro vocale».
Tuo padre Don Francks era un attore. Che film ha fatto?
«Stava cominciando a diventare famoso, dopo un film con Fred Astaire diretto da Francis Ford Coppola, “Finian’s rainbow”. Poi però ha deciso di mollare Hollywood e andare a vivere con mia madre in una riserva indiana. E’ lì che sono nata e cresciuta. Poi è stato uno choc, quando per la prima volta mi sono trovata in una città... Sai, avevo una famiglia molto hippy».
Comunque anche tu hai iniziato dal cinema, come doppiatrice.
«Lo faccio tuttora, soprattutto nei cartoons. C’è la mia voce nei Tiny Toons, nei Rugrats, e nel prossimo film della Disney, “Loss city of Atlantis”».
E alla musica come sei arrivata?
«Parecchi anni fa, con un gruppo hard-rock che stava per firmare con la Capitol - quando poi non se ne è fatto niente, per me è stato un trauma. Avevo avuto il cuore spezzato dalla musica. Per anni mi è mancato il coraggio di riprovarci. E comunque alla carriera solista non pensavo assolutamente. Perché se ti va male con un gruppo, puoi dire che la colpa è di tutti. Se ti va male come solista, la colpa è tua e di nessun altro, e prendermi sulle spalle tutto quanto, pensare a cosa proporre al pubblico, cosa può piacere e cosa no... Non me la sentivo».
Poi è arrivato Lenny... Da quanto lo conosci?
«Da nove anni. E’ stata la sua ex, Lisa Bonet, a presentarmelo. Penso che lui sia andato controcorrente, contro le tendenze musicali imperanti. Non è partito da una moda, ma dalla convinzione che la musica sia vita e amore, una semplice festa. Con lui ho in comune la convinzione che la verità stia nella semplicità».
Chi era il tuo idolo musicale, da ragazza?
«Frank Zappa. Amavo il modo in cui la musica seguiva i suoi pensieri, e cambiava. E poi la semplicità dei Beatles».
Hai un tatuaggio immenso. Cosa rappresenta?
«Quello sulla schiena? La dea Kalì. Lo so che è grande, ma pensa che non è ancora finito. E non ho più molta schiena a disposizione...».