“Voi in Europa siete fortunati, qualche negozio di dischi qui c’è ancora. Da noi, negli Stati Uniti, credo ne siano rimasti due, un Virgin Megastore a New York e uno a Hollywood. E allora…”. Usa una metafora forzata Will.I.am dei Black Eyed Peas per introdurre il senso del suo pensiero e della sua posizione di artista al tempo della musica digitale: lo abbiamo incontrato e intervistato in occasione di Nokia Remix a Londra (vedi News)
“Mi ricordo quando da ragazzino andavo nei negozi, toccavo questi album, vedevo queste copertine e volevo quegli oggetti! Mi ripetevo: ‘Un giorno firmerò un contratto discografico e farò un disco come questo’. Era il mio sogno che si è realizzato. Ma quegli oggetti erano particolari. Tipicamente erano album con una dozzina di brani da quattro minuti ciascuno. Perché li facevamo così? Perché quello era il limite fisico di capienza per il supporto di vinile. Perché le interruzioni pubblicitarie alla radio richiedevano una determinata brevità per i brani. E così è nato un format che è durato per molti decenni, poi ereditato dal CD, meno cartone più plastica. Ma mi chiedo: oggi ha ancora veramente senso per un artista concepire la sua opera come una serie di album, di collezioni finite e limitate di canzoni? Credo di no. Credo che questo sia il periodo storico in cui dobbiamo prendere atto dei cambiamenti e di conseguenza ridefinire il concetto stesso di canzone”.
L’esperimento di “Yes we can” si inquadra in questa visione?
“Esattamente. E’ proprio quello che ho fatto con 'Yes we can'. Nessuno mi ha chiesto di produrre quel pezzo e quel video, innanzitutto: l’ho fatto spontaneamente e l’ho prodotto esclusivamente per Internet. L’idea era quella di supportare una campagna politica attraverso una canzone, perché la canzone, in quanto musica, è interazione pura, è uno strumento capace di aggregare e coinvolgere la gente, è un’esperienza da condividere per definizione. Il concept era semplice: partendo da un discorso di Obama, intorno al sample di qualche frase chiave ho costruito la canzone e l’ho corredata da un video originale, basilare. Poi quella canzone, che era nata proprio per essere condivisa gratuitamente, ha generato quello che speravo: interazione e coinvolgimento da parte della gente, che abbiamo messo in condizione di caricare online i propri interventi e contributi, diventando parte del brano e del video stesso, trasformatosi in un mosaico. Ad oggi, secondo le statistiche di Viral Video Chart, “Yest we can” è il video virale di maggior successo online, con oltre 18 milioni di visualizzazioni”.
Hai affermato, parlando di questo brano, che dimostra che la musica funziona quando è gratis: è vero in generale?
“Mi riferivo a quel caso particolare.”.
Come mai l’hai postato da solo, senza coinvolgere la tua casa discografica?
“Perché non sarebbe mai successo. Ci saremmo persi in chiacchiere, discussioni, mille dettagli e la canzone non sarebbe mai andata online. E non credo che avrei potuto regalarla”.
Qual è stata la loro reazione alla tua iniziativa?
“Mi hanno detto che gli è piaciuta molto…”.
E tu che reazione hai avuto quando hai saputo dell’esperimento dei Radiohead sul Web di qualche mese fa, per restare in tema di gratuità?
“Ho pensato che fosse semplicemente straordinario”.
E ora potrai applicare parte di questo atteggiamento sperimentale anche ai Black Eyed Peas?
“Mi ricordo quando da ragazzino andavo nei negozi, toccavo questi album, vedevo queste copertine e volevo quegli oggetti! Mi ripetevo: ‘Un giorno firmerò un contratto discografico e farò un disco come questo’. Era il mio sogno che si è realizzato. Ma quegli oggetti erano particolari. Tipicamente erano album con una dozzina di brani da quattro minuti ciascuno. Perché li facevamo così? Perché quello era il limite fisico di capienza per il supporto di vinile. Perché le interruzioni pubblicitarie alla radio richiedevano una determinata brevità per i brani. E così è nato un format che è durato per molti decenni, poi ereditato dal CD, meno cartone più plastica. Ma mi chiedo: oggi ha ancora veramente senso per un artista concepire la sua opera come una serie di album, di collezioni finite e limitate di canzoni? Credo di no. Credo che questo sia il periodo storico in cui dobbiamo prendere atto dei cambiamenti e di conseguenza ridefinire il concetto stesso di canzone”.
L’esperimento di “Yes we can” si inquadra in questa visione?
“Esattamente. E’ proprio quello che ho fatto con 'Yes we can'. Nessuno mi ha chiesto di produrre quel pezzo e quel video, innanzitutto: l’ho fatto spontaneamente e l’ho prodotto esclusivamente per Internet. L’idea era quella di supportare una campagna politica attraverso una canzone, perché la canzone, in quanto musica, è interazione pura, è uno strumento capace di aggregare e coinvolgere la gente, è un’esperienza da condividere per definizione. Il concept era semplice: partendo da un discorso di Obama, intorno al sample di qualche frase chiave ho costruito la canzone e l’ho corredata da un video originale, basilare. Poi quella canzone, che era nata proprio per essere condivisa gratuitamente, ha generato quello che speravo: interazione e coinvolgimento da parte della gente, che abbiamo messo in condizione di caricare online i propri interventi e contributi, diventando parte del brano e del video stesso, trasformatosi in un mosaico. Ad oggi, secondo le statistiche di Viral Video Chart, “Yest we can” è il video virale di maggior successo online, con oltre 18 milioni di visualizzazioni”.
Hai affermato, parlando di questo brano, che dimostra che la musica funziona quando è gratis: è vero in generale?
“Mi riferivo a quel caso particolare.”.
Come mai l’hai postato da solo, senza coinvolgere la tua casa discografica?
“Perché non sarebbe mai successo. Ci saremmo persi in chiacchiere, discussioni, mille dettagli e la canzone non sarebbe mai andata online. E non credo che avrei potuto regalarla”.
Qual è stata la loro reazione alla tua iniziativa?
“Mi hanno detto che gli è piaciuta molto…”.
E tu che reazione hai avuto quando hai saputo dell’esperimento dei Radiohead sul Web di qualche mese fa, per restare in tema di gratuità?
“Ho pensato che fosse semplicemente straordinario”.
E ora potrai applicare parte di questo atteggiamento sperimentale anche ai Black Eyed Peas?
“Ma certo, stiamo registrando il nostro nuovo disco qui a Londra, poi andremo a casa a mixarlo e uscirà il prossimo anno. Sarà realizzato in maniera tradizionale con la casa discografica ma, proprio come per “Yes we can”, avrà estensioni ulteriori e gratuite. Sarà un album a cui la gente potrà connettersi e con cui vorrà interagire”.
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