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L’insostenibile leggerezza di Tom Petty

È il giorno giusto per ricordare chi portò la semplicità nel rock made in USA. Tra Bruce, Bob e Neil
L’insostenibile leggerezza di Tom Petty

Oggi Tom Petty avrebbe compiuto 75 anni. Se n’è andato da otto, ormai, ma l’eredità che ha lasciato lo colloca ancora tra le figure più importanti e coerenti della storia del rock. Un genere in cui è entrato in punta di piedi… e in cui si è affermato in punta di piedi, con l’orgoglio di chi rivendica più il titolo di cantautore che quello di rockstar.

Fin dagli esordi con gli Heartbreakers, infatti, ha sempre avuto ben chiara la strada da percorrere: inserirsi nella tradizione musicale statunitense innovandola, sì, ma senza stravolgerla. I Byrds, Bob Dylan, i primi Rolling Stones: Petty si appropria di quel linguaggio e lo coniuga con una nuova libertà artistica. L’energia del rock da garage con l’universalità del pop d’autore, senza eccessi. Prendiamo i suoi più grandi successi: “Free Fallin’”, “American girl”, “Learning to fly”: non li puoi incasellare. Pop, rock, folk, country: funzionano e basta. Senza rivoluzioni, ma portando al tempo stesso una ventata di aria fresca ai codici della canzone popolare.

Il suo repertorio non sfigura accanto a quello dei grandi nomi della tradizione a stelle e strisce, come Dylan o Springsteen. Se Bruce si fa portavoce della working class come narratore epico e Bob la decostruisce con il suo spietato realismo, Tom si fa cronista della normalità, del quotidiano. Le sue storie sono fatte di piccole fughe, di amori precari, di dignità silenziose. Non c’è rabbia: solo fedeltà a sé stessi. “Refugee”, “I won’t back down” o “The waiting”: è l’America dei sobborghi, della classe media, delle radio locali, dipinta con una naturalezza che nessun manifesto politico avrebbe potuto eguagliare.

Con il buon vecchio Bob ha anche condiviso la militanza nei Traveling Wilburys, quel supergruppo pazzesco che alla fine degli anni Ottanta riunì Petty e Dylan, appunto, George Harrison, Jeff Lynne e Roy Orbison. Praticamente il paradiso del folk rock. Mancherebbe giusto Neil Young, che con Petty ha molto da spartire. Entrambi amano la libertà – intesa come indipendenza artistica e resistenza alle pressioni del mercato – più di ogni altra cosa, pur declinandola poi in modi diversi: Petty cerca la comunione e Young l’isolamento, uno è dolce e strutturato mentre l’altro è incendiario e votato all’imperfezione. Eppure, in quanto a integrità morale, è difficile trovare differenze tra i due.

I paragoni con i nomi più illustri servono a definire l’identità di Thomas Earl Petty, mediatore eccelso tra ribellione e melodia. Ed è forse qui, nel suo canzoniere, che si coglie la vera essenza, o la bellezza, del rock targato USA: un dialogo costante tra disordine e misura, istinto e mestiere. Tra poesia e polvere.

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