E l'indie diventò pop: l'avvento di Calcutta, dieci anni dopo

Non arrivò dal nulla, come si raccontò all’epoca. Dietro c’era un meticoloso lavoro di promozione pop, sebbene “mascherata” da pratiche do-it-yourself. La missione: rendere quel misterioso «cantautore di Latina» di cui nessuno, al di fuori del circuito indipendente capitolino aveva ancora sentito parlare, una vera popstar. Del resto, fu al sito di un quotidiano generalista che i ragazzi dell’etichetta indipendente romana Bomba Dischi, che fino ad allora si aggiravano nei backstage di eventi come il Concerto del Primo Maggio consegnando ai giornalisti i cd delle proprie piccole produzioni tra rock psichedelico (i Jennifer Gentle) e hipsterismi vari (Boxerin Club), affidarono l’anteprima del videoclip della canzone: era il 24 settembre 2015 quando il sito de La Repubblica mandò online il video di “Cosa mi manchi a fare” di tale Calcutta. «Il cantautore di Latina ha composto un album di canzoni brevi che parlano di amore e di coppia con la normalità delle parole semplici», si leggeva nella didascalia. Tre giorni dopo la clip - regia di Francesco Lettieri, protagonista un bambino cingalese che si aggira nel cuore della cosiddetta Borgata Boredom, tra il Pigneto e Torpignattara, il ritrovo degli hipster romani degli Anni Duemiladieci, nella zona est della Capitale - sarebbe stata pubblicata anche su YouTube. Impossibile definire, invece, il giorno esatto in cui quella “Cosa mi manchi a fare” finì ovunque: la leggenda narra che i primi a passarla in radio furono quelli di Radio Deejay, noti per avere sempre le antenne dritte. Fatto sta che ad un certo punto, nell’autunno del 2015, Calcutta passò dall’essere un perfetto sconosciuto all’essere investito del ruolo di salvatore della canzone italiana. E no, non è un’esagerazione.
L'impatto di "Cosa mi manchi a fare"
In molti nelle settimane successive alla pubblicazione di “Cosa mi manchi a fare” riconobbero nella canzone di Edoardo D’Erme, questo il vero nome del cantautore, all’epoca 26enne, una forza comunicativa nuova e una carica espressiva inedita per una musica italiana impantanata tra cieli senza nuvole, tappeti di fragole e finestre tra le stelle, salutandone con entusiasmo l’ascesa. Ad aprire una piccola fessura nel muro che divideva l’underground dal mainstream della canzone italiana ci aveva pensato, nel 2011, Niccolò Contessa con i suoi I Cani. Poi nel 2014 erano arrivati i Thegiornalisti di Tommaso Paradiso, con “Promiscuità” e “Mare Balotelli”. Ma Calcutta aveva evidentemente qualcosa in più: una scrittura che, seppur muovendosi nei codici estetici e sonori delle sperimentazioni della Borgata Boredom, era capace di suonare estremamente pop. Del resto, quel riff arpeggiato di tastiera - una pianola giocattolo della Yamaha - che apriva “Cosa mi manchi a fare”, ipnotico e ripetitivo, minimalista e storto, destinato a diventare il marchio sonoro di una generazione, era nella più classica delle tonalità “mainstream”, il Do maggiore. E ultrapop lo era anche la melodia della canzone, nonostante quei versi enigmatici e quell’interpretazione sgraziata, svogliata, quasi parlata, quella di chi sembra che stia cantando da solo nella sua stanza più che a un pubblico: «La pioggia scende fredda e su di te / Pesaro è una donna intelligente / forse è vero ti eri fatta trasparente / ma non ci cascherai mai».
"Mainstream"
In un mercato saturo di progetti plasticosi costruiti a tavolino, di un pop becero e schiavo di luoghi comuni e cliché, Calcutta sparigliò le carte. Lui cita Lucio Battisti e Caetano Veloso come punti di riferimento, ma intanto nei locali del Pigneto si esibisce suonando cover di Cesare Cremonini e dei Lunapop. E non solo per il gusto di provocare (che gli appartiene, e lo dichiara in “Gaetano”, raccontando di aver «fatto una svastica in centro a Bologna, ma era solo per litigare»). Ma perché il pop, in fondo, quello fatto bene, gli piace. Ed è ciò a cui ambisce, intitolando - guarda caso - “Mainstream” l’album che arriverà il 30 novembre, due mesi dopo “Cosa mi manchi a fare”. «C'era un po' la voglia di mandare a quel paese, di non fare una cosa già fatta, di provocare gente come quelli di Vice, quelle lobby, quelli che hanno parlato di me per primi perché sembravo strano. Cioè, non è che ci tengo proprio che la gente ci rimanga male, anche se molti mi hanno detto che questi nuovi arrangiamenti fanno schifo. Volevo dire “voglio fare un disco mainstream”, perché al massimo di solito si dice “voglio fare il disco anni Sessanta, anni Settanta o con uno stampo, boh, ispirato agli anni Trenta”. Il vero immaginario mainstream alla fine oggi è retromaniaco, non esiste neanche più», dirà a La Repubblica.
Una "Rimmel" 2.0?
Tornando a “Cosa mi manchi a fare”: a distanza di dieci anni risulta ancora più evidente, guardando ciò che l’industria discografica proponeva all’epoca (nel 2015 l’autore di riferimento del mainstream italiano è Francesco “Kekko” Silvestre, il frontman dei Modà, che firma di tutto: Alessandra Amoroso, Emma, Annalisa, Francesco Renga, Anna Tatangelo, Bianca Atzei, Dear Jack), come abbia rappresentato un importante sparticque per la canzone d’autore italiana. Forse i paragoni con “Rimmel” di Francesco De Gregori, di cui ci rendemmo responsabili anche noi, all’epoca erano un po’ esagerati (De Gregori che sarà tirato in ballo esplicitamente in una delle canzoni di “Mainstream”, “Limonata”: «E noin m’importa niente di tuo padre ascolta De Gregori / a me quel tipo di gente no, non va proprio giù / Taranta, Celestini e Bmw»). Ma quel modo ironico, antiretoprico, critptico e surreale di parlare della fine di una storia d’amore fu in qualche modo dirompente: «Raggiungermi è un orgasmo da provare - canta Calcutta in uno dei versi più enigmatici della canzone, una sorta di manifesto della sua attidutine, del suo modo di stare al mondo (dello spettacolo), da antidivo - ricordami le olive sono buone / mi prenderò un gelato con il tuo sapore / ti spaccherò la faccia se non mi dai il cuore». E poi a pieni polmoni: «Ma non m’impirta se non mi ami opià / e non m’importa se non mi vuoi bene / dovrò soltanto reimparare a camminare». Se Contessa aveva aperto una fessura nel muro tra underground e mainstream, Calcutta - che di lì a poco si ritroverà ad essere il nuovo autore di riferimento del pop: Elisa, Francesca Michielin, Nina Zilli, Emma, tutti alla sua corte - quel muro si ritroverà a buttarlo giù, spalancando le porte dell’indie (e dei circoli Arci) anche alle ragazzine: uno sfigato al potere, la cosa più hipster che si possa immaginare.