Quanto ci manchi, Bonzo

Le classifiche lasciano quasi sempre il tempo che trovano. Soprattutto nella musica. Gli artisti, le band, i brani bisogna goderseli, senza troppe discussioni su chi o che cosa sia meglio di uno o dell’altro. Certe volte, però, fare classifiche è più facile: alcuni nomi sono punti cardinali per chiunque. E John Henry Bonham, nella classifica dei migliori batteristi della storia, è un punto cardinale. È questione di tecnica, di approccio, di groove, di spirito e di iconicità. Quando sei incisivo in tutti e cinque questi campi, sei un batterista destinato a passare alla storia.
Autodidatta – dettaglio che non fa che accrescere la dimensione del suo estro, come nel caso di Frank Zappa –, la sua avventura ritmica inizia davanti a un kit fai da te composto da lattine di caffè, a 5 anni. A 10 riceve il primo rullante, a 15 il primo set completo. Nessuna lezione: chiede consigli ai batteristi in città, nel Worcestershire. Quando non è insieme al padre nei panni di apprendista falegname, porta avanti l’attività musicale con qualche band del posto. Ammiriamo e ringraziamo ancora oggi il giovane Robert Plant per non aver ceduto al diktat che inizia a diffondersi nei locali della zona: “vietato l’ingresso a gruppi con John Bonham alla batteria".
Troppo rumoroso, troppo irruento secondo i gestori, che non ne comprendono il genio – come spesso capita ai geni. Anche se, col senno di poi, evitare il successo gli avrebbe con ogni probabilità salvato la vita. Ragazzo di campagna, John è talmente mansueto da guadagnarsi il soprannome "Bonzo", sinonimo di monaco buddista. Quando la fama con i Led Zeppelin lo travolge e lo costringe a vivere lontano dalla famiglia, il sistema emotivo va in cortocircuito. Inizia a vivere di eccessi, a ubriacarsi, a distruggere camerini e stanze d’albergo in preda a violenti disturbi di personalità. Tanto che il soprannome da “Bonzo” diventa “the beast”: la bestia. La mattina del 25 settembre 1980, il manager della band e John Paul Jones lo trovano soffocato dal suo stesso vomito.
«Desideriamo rendere noto che la perdita del nostro caro amico e il profondo senso di rispetto che nutriamo verso la sua famiglia ci hanno portato a decidere — in piena armonia tra noi e il nostro manager — che non possiamo più continuare come eravamo». I Led Zeppelin muoiono insieme a Bonham. Insostituibile. Il motivo è molto semplice: nessuno può replicare fedelmente quel suono profondo e dinamico. Profondo, perché dalle sue Ludwig, dall’iconico kit Vistalite trasparente arancio e dall’accordatura alta dei tom riesce a tirare fuori un timbro tonitruante e monumentale. Ma anche dinamico, perché non c’è altra parola per descrivere il senso ritmico di Bonzo, capace di passare da ghost notes appena accennate a colpi devastanti, mantenendo costante il groove; capace di fondere blues, hard rock e funk in un linguaggio che ancora oggi ispira generazioni di musicisti.
Il suo big drum sound – quello di “When the levee breaks”, registrato nell’atrio di Headley Grange, per intendersi – diventa materia di studio. Un manuale di batteria moderna. Equilibrio strabiliante tra rudimenti tradizionali e applicazione creativa, tra approccio viscerale e tecnica. Non è solo “un batterista potente”: è una forza della natura, con una visione orchestrale che gli consente di rivoluzionare il ruolo del suo strumento nel rock. Le sue esibizioni live parlano da sole: assoli di oltre venti minuti, mani nude sui tamburi, energia pura che travolge tanto il pubblico quanto i compagni di palco. Un ciclone.
I colpi di Bonham sono mattoni fondamentali nel muro sonoro degli Zeppelin e nove album sono lì a dimostrarlo. La sua batteria non è mai semplice accompagnamento: è architettura sonora. Chi crede che John Bonham fosse solo “il batterista dei Led Zeppelin” manca di rispetto a una leggenda, al potere del suo strumento e alla storia della musica tutta. Perché una certezza nella vita c’è: il rock, dopo Bonzo, non è più stato lo stesso.