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Riccardo Sinigallia: "Escluso dal sistema: sono un rompicoglioni"

Il cantautore e produttore romano si racconta: "La canzone italiana? Un villaggio vacanze, ormai".
Riccardo Sinigallia: "Escluso dal sistema: sono un rompicoglioni"

Non pubblica un album da sette anni. L’ultimo, “Ciao cuore”, risale al 2018. Quando gli chiedi se i tempi siano maturi per un ritorno, Riccardo Sinigallia ti risponde in maniera netta: «No». Poi, ti spiega anche perché: il cantautore e produttore che con il suo ritornello ha contribuito a rendere “Quelli che benpensano” di Frankie Hi-Nrg una delle canzoni più importanti e conosciute degli ultimi trent’anni, che ha reso “Due destini” e “La descrizione di un attimo” dei Tiromancino due hit senza tempo e che ha contribuito a svoltare le carriere di Niccolò Fabi, Max Gazzè, Luca Carboni, Motta, Brunori e pure Coez, ha chiuso con la forma-canzone. «Per me “Ciao cuore” ha sancito anche nel titolo la fine di un approccio, quello discografico. Suono e studio tutti i giorni: ma in questa fase della mia carriera voglio fare qualcosa di totalmente espressivo, libero, senza nessun tipo di retaggio con la canzone», dice il musicista romano, 55 anni, che quando all’ultimo Festival di Sanremo è apparso nella serata delle cover accanto a Brunori - e a Dimartino - sulle note de “L’anno che verrà” di Lucio Dalla sembrava quasi un miraggio, tanto sono rare le sue apparizioni in tv e in certi circuiti. Lo sono un po’ meno quelle sui palchi che sanno di musica suonata per davvero, come quello di Casilino Sky Park a Roma, dove si esibirà domani sera alle 21 ospite del festival della canzone d’autore SenzaFiltro.

«Sento che il mio karma è quello di essere l’escluso di questa storia della musica italiana degli ultimi vent’anni». Lo dicesti ai tempi di “Ciao cuore”, nel 2018. È ancora così?
«Forse all’epoca non avevo ancora perfezionato del tutto la consapvolezza di questa cosa. Oggi ho capito che della storia della musica italiana ormai, se non altro per sbaglio, faccio comunque parte: ci entro di diritto per usucapione, per quelle canzoni alla cui scrittura o produzione ho contribuito e che sono diventate dei classici. Sento di essere, semmai, l’escluso del sistema discografico. E non parlo solo del pop, ma anche del circuito discografico legato alla canzone d’autore, che dal 1982 in poi è andato gradualmente a favorire un certo tipo di approccio alla canzone: leggero, ironico, sardonico, sornione. Escludendo inesorabilmente tutti quegli artisti che magari venivano visti come rompicoglioni o portasfiga».

In quale categoria rientri tu?
«Un po’ tutte».

Anche portasfiga?
«Sì. Perché questa piccola parte di indipendenti di cui sento di far parte è andata a mettere una lente di ingrandimento su alcune faccende delle quali era meglio non parlare. Oppure se proprio lo si voleva fare, bisognava farlo con ironia».

Faccende di che tipo?
«Di tutti i tipi, da quelle politiche o sentimentali. E non parlo di testi. Basta anche la musica. Se facevo un pezzo in minore, elettronico, destrutturato, la gente scappava. Gli artisti più grandi che ho conosciuto sono stati messi ai margini».

Chi si è salvato?
«Giovanni Lindo Ferretti per la sua grandezza è riuscito a trovarsi uno spazio. Gli altri hanno saputo dialogare con quel versante lì che ha escluso tutti gli altri. Il fatto di essere escluso da Sanremo e da quegli ambiti e anche il fatto di aver escluso io alcune cose per scelta, in una refrattarietà reciproca, è una conseguenza di questo. La canzone italiana oggi è un mega villaggio vacanze in cui per partecipare devi sapere di essere in quell’enviroment, altrimenti sei fuori. Quelli che sono dentro è perché ci volevano stare dentro».

Il posto di Riccardo Sinigallia qual è?
«Sono un uomo che va dove lo invitano, come diceva Claudio Lolli. Per mandare avanti la famiglia e pagare le bollette».

È vero che il lavoro di produttore non ti piace?
«Non è che non mi piace fare il produttore: non mi piace il termine “produttore”. Il lavoro del musicista mi piace tantissimo, anche se lo faccio per altri. Mi piace molto nel momento in cui sento una tensione artistica. Se non c’è quella tensione artistica, ma c’è solo il lavoro, mi piace di meno».

Quando c’è stata tensione artistica?
«In “Due destini” dei Tiromancino, che non mi vede come autore, ma che mi vede coinvolto come musicista, provai un’enorme soddisfazione artistica, ad esempio».

E in “Quelli che benpensano”?
«Quella tensione artistica la sentii talmente tanto che non mi è piacque per niente. All’epoca avevo 25 anni. L’hip hop in Italia era roba molto chiusa, stretta, in cui i musicisti erano visti con diffidenza, gli strumenti erano banditi e la melodia era percepita come un nemico. Facevo ricerche musicali con David Nerattini e Francesco Zampaglione con la band dei 6 Suoi Ex, tra trip hop e techno. Cantare su quella roba lì un ritornello melodico mi sembrava un’intrusione. E poi ero anche fragile vocalmente. Non che oggi sia chissà che tipo di interprete, ma sono sicuramente più convinto della mia forma espressiva vocale. All’epoca non era così. Uscii dallo studio chiedendo scusa a Frankie: pensavo di avergli rovinato il pezzo. E invece… (ride)».

Hai detto che lasciare i Tiromancino dopo il successo de “La descreizione di un attimo” fu un atto politico: in che misura?
«Nei Tiromancino c’era un meraviglioso equilibrio tra Federico, Francesco, Laura (Arzilli, bassista del gruppo, oggi compagna di Sinigallia, ndr) e me. Quando arrivarono i rappresentanti di altre questioni, meno artistiche e più economiche, portarono un altro tipo di approccio alla quotidianità, che invece prima era più anarchico, libero: cambiò tutto».

Parli di manager e discografici?
«Sì. Forse Federico desiderava giustamente quella roba lì per i Tiromancino, che infatti poi ha portato avanti in quella che era la maniera giusta per lui. Ma io mi resi conto che a differenza di come eravamo partiti, quell’equilibrio tra noi quattro era venuto meno. Ecco perché abbandonare il gruppo fu un atto politico».

C’è qualcosa che ti intriga o ti incuriosisce del pop italiano contemporaneo?
«Ascolto poco. Anzi, sto quasi abbandonando completamente l’ascolto della discografia. Cerco in rete video amatoriali di gente che fa ricerca sui sintetizzatori e pubblica proprie cose strumentali. Dei colleghi mi piacciono Andrea Laszlo De Simone, Daniela Pes e Gaia Banfi».

Che idea ti sei fatto dei meccanismi dell’industria di questi anni? Questa è stata l’estate che ha fatto scoppiare la bolla del gigantismo a tutti i costi, tra stadi semipieni e numeri gonfiati.
«Il pubblico vuole questo: è la storia culturale del nostro paese. Se uno si abitua a ruttare, poi rutta e manco se ne accorge più che sta ruttando. Alla fine la gente comune vuole questa roba qui, facile, che somiglia a qualcosa di già fatto, con imitazioni di modelli internazionali. E da qui la reiterazione di formule, firme, suoni: è tutto ridicolo. Anche Battisti anche ascoltava la Motown, ma la filtrava con il suo gusto: era musica Motown ma di Poggio Bustone. E lo stesso si può dire del blues di Pino Daniele, riproposto in salsa napoletana, come mai nessuno aveva fatto prima di lui. Raramente trovo artisti intelligenti e canzoni che mi piacciono».

Con Brunori, che ti ha voluto come produttore del suo ultimo disco, “L’albero delle noci”, e come direttore musicale del tour, come è andata?
«Brunori è uno diverso. Perché non porta un prodotto americano in Italia, scimmiottando un’altra roba: riprende la nostra tradizione e la porta avanti a modo suo. Andiamo avanti sperando che ci sia prima o poi un rinascimento. Anche se non dovesse succedere, pazienza».

Nel 2020 fondasti un’etichetta indipendente, Dram: è ancora attiva?
«Non è mai partita in realtà. La pandemia mi spinse a mettere il progetto in stand-by. Si vedrà».

Il lavoro come compositore per il cinema come prosegue, dopo le collaborazioni con Renato De Maria, Gabriele Salvatores, Ginevra Elkann ed Elisa Amoruso?
«Anche quello è in stand-by. Ho in ballo dei progetti, ma è presto per parlarne. È un lavoro che sto imparando a fare».

Ancora? Hai fatto più colonne sonore che dischi.
«Ma l’ho fatto da appassionato, senza avere chissà quale preparazione. Ho ancora molto da imparare».

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