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Mogwai: il raro prodigio si ripete dal vivo

La band scozzese si è esibita da headliner nella serata inaugurale di La Prima Estate a Camaiore
Mogwai: il raro prodigio si ripete dal vivo
Credits: Fabio Paleari

I Mogwai tornano in Italia come headliner della serata inaugurale de La Prima Estate, il festival che da ormai quattro edizioni avvia la bella stagione in Versilia a suon di musica internazionale. Arrivano a pochi mesi dalla pubblicazione di “The Bad Fire”, disco nato da innesti personali molto dolorosi - il titolo stesso deriva da un'espressione gergale scozzese che indica l'inferno - e divampato in un fuoco sacro di commozione, intelligenza, evoluzione e gusto.

Partire con i paladini del post-rock scozzese è un bel colpo, perché poche band sono in grado di lavorare sull'atmosfera con una tale efficacia e intensità. Anzi, la musica dei Mogwai sfocia in così tanti scenari emotivi e sensoriali da rendere quasi vano lo sforzo di raccontare un loro concerto. Sul palco, di fatto, non accade molto. Stuart Braithwaite è il più atipico dei frontman: non fa nulla per catalizzare l’attenzione, mentre mette i propri talenti al totale servizio della musica del gruppo. Non gli piace neanche essere definito il “leader” della band. Pare non ci sia spazio per protagonisti umani: questa storia appartiene alla musica. E infatti chi va a sentire i Mogwai lo fa per essere travolto dal loro muro di suono e aprire le porte della percezione, non di certo per guardare uno spettacolo.

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Con “God Gets You Back” e “Hi Chaos”, primi due pezzi in scaletta, i Mogwai presentano al Parco BussolaDomani di Lido di Camaiore il loro nuovo capitolo discografico. “The Bad Fire”, come ogni altro disco dei Mogwai, sembra nato per essere suonato dal vivo. Ecco l’eterna epifania di chi ascolta e segue i Mogwai da decenni: la versione in studio è un adattamento, mentre il live è la versione originale. Assistendo a questo raro prodigio si apprezza ancora di più la capacità del nuovo album di affiancare alla loro solita maestosità un’eleganza sonora inusuale, non solo per il genere. Pur essendo stato composto in un periodo emotivamente molto complicato per i membri della band, ne è uscito un lavoro ancora più ampio, che esplora gli estremi del post-rock con orizzonti sempre più lontani, senza mai perdere l’orientamento. Sono loro, sono sempre loro, e la formula è talmente vincente e sana che abbandonarla parrebbe sacrilego, eppure c’è sempre qualcosa in più . Qualcosa di più profondo, forse anche più affascinante.

A questo punto della carriera, i Mogwai hanno sviluppato una consapevolezza e un controllo dei propri mezzi
da far fare a tante persone il più classico degli errori, quello del celebre monito degli Oasis: “Please don't put your life in the hands of a rock 'n' roll band” . Ma non fidarsi di - e affidarsi a - questa band è difficile. Lo si capisce quando ci si trova davanti al loro palco e quelle monumentali cavalcate strumentali smontano pezzo per pezzo tutte le sovrastrutture tipiche del carrozzone della musica dal vivo, mentre synth e chitarre si intrecciano in un vortice di straordinaria bellezza.
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Anche nei pochi momenti cantati, l’incantesimo strumentale non si spezza. In “Ritchie Sacramento” , per esempio, la voce di Stuart si insinua con eleganza nell’esperienza, quella che qualche anno fa è stata descritta con delle parole che potrebbero sembrare sensazionalistiche, ma aderiscono perfettamente al progetto: “If The Stars Had a Sound” . Fu questo il titolo del documentario di Antony Crook che raccontava, oltre alle origini di questa sorprendente carriera, anche il commovente percorso che ha portato per la prima volta un loro disco -
“As The Love Continues” , lavorato durante la pandemia e indiscutibilmente accolto come uno dei più belli - a raggiungere la prima posizione nel Regno Unito. Un risultato accolto e celebrato anche da tante figure di spicco della musica internazionale, come potente segnale di speranza per la musica alternativa, o più semplicemente per la buona musica.
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Anche il concerto è pensato come un climax, riproponendo macroscopicamente l’esperienza in crescendo di molti dei loro brani. E infatti chiudono dopo un’ora e mezza con “My Father, My King”, il colpo di grazia sia per i timpani - finalmente un concerto con volumi adatti? - sia per il cuore. La chiusura perfetta per un prezioso viaggio nel mondo sonoro dei Mogwai, uno dei pochi a riuscire a restare fedele a se stesso, senza abbandonarsi alla nostalgia, senza restare intrappolato nel passato. Anzi, guardando sempre avanti. In trent’anni di carriera e undici album in studio, i Mogwai sono riusciti a fidelizzare un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo, senza mai snaturare la loro visione.
Un lavoro fondato sulla dignità artistica, sulla fiducia nella bontà della propria musica e su una costante qualità che forse, in fondo, può davvero essere un’alternativa alle tante scappatoie e scorciatoie spesso spacciate per tappe fisse di un destino ineluttabile.
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