Il “POV” di Ghemon/Gianluca:“Non cerco una reunion con me stesso”

Gianluca corre. Quando ci sentiamo su Zoom è a Chicago, per partecipare ad una delle maratone più importanti. Anche Ghemon non sta mai fermo: è in giro da un anno e mezzo con “Una cosetta così”, uno show tra musica e stand-up comedy che venerdì 8 novembre approda agli Arcimboldi di Milano, dopo essere partito da piccoli club.
Domani, venerdì 25 ottobre Ghemon pubblica “POV” la canzone che chiude lo spettacolo: è rap, è un’autoanalisi senza filtri sul suo punto di vista e sulla sua storia (qua un'anteprima sui social). Anche se, spiega, non è un ritorno: semplicemente usa diversi linguaggi per raccontare e raccontarsi. Non c’è ritorno e non c’è una reunion con il “vecchio” Ghemon, quello che è partito dall’hip-hop, per evolversi con il nu-soul e approdare alla stand-up comedy, la sua passione, dopo un Sanremo (2021) andato così così. C’è la voglia di andare avanti sorprendendo il pubblico, perché a 40 anni si può essere una novità, anche in un ambiente giovanilistico come la musica pop.
In questa conversazione senza filtri, Gianluca/Ghemon corrono assieme per raccontare perché musica e stand-up sono due linguaggi che si integrano ma che vanno gestiti diversamente - il motivo per cui “Una cosetta così” non si può raccontare, va visto, senza spoiler e mettendo via i telefoni. Annuncia che arriverà nuova musica e racconta quanto gli ha fatto bene fare un passo di lato rispetto ai meccanismi dell’industria, come in un post di qualche mese fa che - giustamente - aveva fatto rumore.
La prima impressione: sei tornato alla musica e sei tornato al rap.
Scherzando, dico che non ci si deve aspettare una reunion con me stesso. Capisco il momento storico, la redditività di questo genere di operazioni, anche il fatto che alcuni fan si perdono momenti della carriera e li vogliono vivere: io probabilmente andrei a vedere un concerto di reunion dei Beatles, se fossero tutti vivi. Però a me non piace vivere nel passato, preferisco portarmi avanti dei pezzi di tutte le cose che mi piacciono.
Se quando ero ragazzino mi avessero detto che un giorno avrei fatto uno spettacolo in teatro dove spiegavo a degli adulti che cosa era stato per me il rap quando avevo 15 anni… Questa nuova canzone esprime un senso di circolarità, era proprio giusto chiudere lo spettacolo con un pezzo di quel genere lì.
Una canzone che ricostruisce il tuo percorso. Il tuo “POV”, appunto.
Per me il rap è un mezzo per andare dal punto A al punto B, per esprimermi dire la cosa che voglio con un mezzo che conosco. Hai presente quando su Google Maps vedi la preview del posto da cui parti verso il posto dove vai e ti dice "bicicletta 20 minuti, macchina 5 minuti”? Io la vedo così: volevo arrivare a questa possibilità di potermi esprimere, di scegliere il mezzo con cui muovermi. Quando voglio dire una certe cosa magari uso il rap, quando voglio dirla scherzando uso un altro linguaggio.
Nessun ritorno, quindi?
Non mi sento di essere ritornato: è un po' una diceria che avessi smesso di rappare, perché nei miei dischi alla fine c'è sempre stato qualche cosa di totalmente rappato, incastonato insieme alle altre cose.
“Una cosetta così” è iniziato come uno show stand-up comedy con qualche cover. Nella versione che arriva al finale agli Arcimboldi l’8 novembre contiene diverse canzoni nuove. Sono state scritte “on the road”?
No, quando iniziavo a scrivere lo spettacolo avevo già non so quante idee e bozze. Dopo il mio ultimo Sanremo sentivo che dovevo imparare delle altre cose: una delle cose che mi è stata detta, che non mi dimenticherò e che cercherò di smentire sempre con la mia carriera, è che io non potevo essere più una novità.
E invece la mia risposta: è col cazzo.
“Ho ancora un asso nella manica”, come canti nella canzone…
Il percorso musicale al di là della stand-up comedy stava già andando da una parte tutta sua: se tu non interiorizzi anche modi nuovi per dire le cose, poi devi inseguire o la wave del momento o semplicemente devi avere uno o più coautori più giovani di te che ti aiutano a uscire dalla tua bolla.
Quindi no, musica e spettacolo sono andati su due binari separati. Poi Carmine del Grosso, uno stand-up comedian che ha scritto lo spettacolo con me, mi ha suggerito di tenere in considerazione l'idea di usare la musica dentro perché comunque questa è la mia formula. Aveva ragione lui, lo ringrazio pubblicamente.
Quello che mi piace di più nell'arte in generale e nell'intrattenimento sono gli artisti versatili, l'ho sempre detto. Adesso con l'età e l'esperienza inizio a passare da confuso a completo. Lo dico perché se uno fa troppe cose, c'è confusione, invece adesso inizio a sentire "ma è un'artista completo".
All’inizio tu stesso facevi fatica a definire questo show: non è un concerto, non è teatro, è “Una cosetta così”. Lo è ancora?
C'è un termine brutto, che è "ibrido", perché "ibrido" sembra freddo. È una cosa che non ha fatto nessuno, questo è. In parte è uno spettacolo comico, c'è della musica e c'è anche una parte di teatro, perché c'è comunque una parte di riflessione seria in un paio di punti. Vado in profondità, mi apro, parlo di cose molto difficili, senza prenderle in giro. Per me è stato un atto catartico, è stato un atto di terapia che mi ha fatto ritrovare le persone.
Che tipo di reazioni hai visto?
La cosa che iniziavo a vedere con i concerti è che più grandi diventavano i palchi, più sei lontano dalle persone. Tante persone, anche di età molto diverse, mi hanno detto che si possono essere rivisti su una battuta di un fatto di casa, su un passaggio della mia canzone, sul rapporto con i genitori. Questo spettacolo ha fatto per me delle cose molto molto importanti nel ritrovare il contatto con le persone.
Lo spettacolo agli Arcimboldi è un punto di arrivo, una tappa o una ripartenza di questo spettacolo?
In realtà sulla carta dovrebbe essere il gran finale, però chi può dirlo? Abbiamo fatto settanta repliche, sono tante. Però questo spettacolo è una cosa che è stata volutamente nella penombra.
Perché la stand-up comedy funziona in maniera diversa dai concerti, giusto?
Alle prime cose che ho visto negli Stati Uniti dovevo mettere via il telefono, è sempre stato così. Non devi spoilerare il materiale dei comici: quando tu sai già una canzone la canti, ricerchi quell'emozione, quando sai già una battuta funziona di meno. Quindi ho dovuto difendere questa idea e anche ho dovuto difendere in qualche maniera, coraggiosamente, il fatto che stavo facendo un altro percorso e avevo bisogno come tutti di fare la mia pratica, senza bruciare il materiale.
E ora che finalmente le cose iniziano a venire alla luce, non posso neanche escludere che poi dopo ci siano altri curiosi che dicano "no scusate, ma neanche lo sapevamo che lui lo faceva, adesso siamo curiosi, lo vogliamo vedere".
Anche la logica di pubblicazione degli spettacoli di stand-up comedy è diversa.
Fai esattamente il contrario. La musica è far uscire il disco e dopo lo porti in giro. Con la stand-up lo porti in giro, dopo iniziano a uscire gli estratti e poi esce lo special come video. In America si fa anche un'altra cosa, per cui c'è una categoria proprio dai Grammy: il comedy album. Qualcuno lo ha già ha fatto anche in Italia, e io lo farò. Stiamo decidendo come pubblicare le altre canzoni dello spettacolo, in che forma, ma usciranno.
Però per me questa è una bella evoluzione, perché finalmente un'idea che ho lì da due anni, e che sapevo che sarebbe culminata così, finalmente inizia a svilupparsi. Qualcuno capirà: “ah, era li che voleva andare a parare".
Ti sei creato un percorso che è fuori dagli schemi classici della musica e della sua industria.
Probabilmente portare alle persone il prossimo spettacolo sarà più semplice, visto che c'è questo precedente. Mi sento libero. È una cosa che mi fa anche piacere, perché è una libertà che mi sono difeso, perché non volevo essere fagocitato. Oggi le sottoculture non esistono, esistono i “generi”, ma sono solamente una distinzione tra gli emergenti e il pop.
Non volevo fare nessuna gara con cose che non c'entravano con me. Mi è ovviamente costato, però adesso mi sento libero di sperimentare, perché quello che volevo far passare nella mia carriera era che questa è la mia caratteristica: mi piace rinnovarmi, aggiungere delle cose magari interessanti, qualche elemento di sorpresa. Adesso so di potermi esprimere perché tutte quante le parti di me parlano: se devo fare una battuta non ho vergogna anche di farla in un'intervista, non mi censuro magari se la devo fare in una trasmissione. Ora sono sicuramente più Gianluca che Ghemon.
Nella canzone parli dell’avere 40 anni, prima citavi il fatto che ti avevano detto che non potevi più essere una novità. La musica è un paese per giovani, da sempre. Ma c’è anche una tendeza al giovanilismo, secondo te?
Secondo me sì. Uno finisce a fare la media, associandosi in un featuring con degli autori più giovani in modo che l'età del tuo progetto si abbassa. Avere una formula nuova, rinnovata, interessante, al sesto o settimo o ottavo disco effettivamente non è facile. Ma la stand-up comedy in questo mi è venuta in aiuto: acquisisci punti di vista e spessore proprio con l’età. E' una figata perché riesco a sentirmi tanto nuovo quanto più autorevole, anche nella musica. Così puoi scegliere il genere di persone che ti interessa avere tra i tuoi ascoltatori.
Qualche mese fa un tuo post sui meccanismi dell’industria, nato dopo il passo indietro di Sangiovanni, venne molto commentato e condiviso. Fare uno scarto di lato da quei meccanismi ti è servito?
Sì, mi ha fatto bene: uno deve conoscere se stesso con il passare del tempo e sapere che genere di cose vuole fare, quali altre domande magari non vuole ricevere, perché semplicemente magari non vanno bene per te.
Anche nelle serate dove lo spettacolo andava più storto ho pensato “meno male che mi sono lanciato dal treno, meno male che ho potuto comunque mettermi lo stesso in discussione”. La parte musicale in questo momento dello spettacolo è sgravata da aspettative che secondo me asfissiano.
Rimpiangi qualcosa?
Fa piacere andare a Sanremo tutti gli anni, essere al centro dell’attenzione. Fa piacere anche al conto economico, però non sono gli unici motivi per cui faccio quello che faccio. Io sono arrivato all'opera di Gaber e al teatro canzone solo dopo che avevo iniziato lo spettacolo, ed è stata una bella coincidenza: vedere che un altro artista, anche lui, aveva fatto un passo di lato e aveva fatto una scelta di coraggio ti fa capire che davvero siamo nani che camminano sulle spalle dei giganti.