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Come il walkman ha cambiato il mondo

Un estratto dal libro di Stefano Solventi "Lo sguardo di Vic"
Come il walkman ha cambiato il mondo

Esce oggi, venerdì 27 settembre, "Lo sguardo di Vic. Il mondo prima e dopo il walkman" di Stefano Solventi, il primo libro della nuova collana di Jimenez intitolata "Turning Point", in cui ogni autore attinge alla sua esperienza per raccontare un momento di svolta e allargare lo sguardo verso altri ambiti e altri orizzonti, regalando una possibile chiave di lettura del nostro mondo e della nostra esistenza.
"Lo sguardo di Vic" è il racconto di come il walkman abbia radicalmente cambiato il nostro modo di stare al mondo. L'autore, Stefano Solventi, ha preso spunto dai suoi ricordi, dalla musica e dalla letteratura, dalle serie tv e dal cinema. 
La Vic alla quale si fa cenno, quella il cui nome e il cui volto campeggiano in copertina, è la Sophie Marceau protagonista del "Tempo delle mele", immortalata nel suo turning point, il momento nel quale l'amico Mathieu le fa indossare le cuffie del walkman. Un attimo che Solventi descrive così: «Lo sguardo di Vic non vede: galleggia. È, come si potrebbe dire oggi, freezato. Affinché possa vedere, le manca un particolare di non poco conto: il futuro».
Solventi sviluppa il racconto lungo le tappe che hanno visto l’ascoltatore da stanziale farsi itinerante, rendendo omaggio al riproduttore di audiocassette tascabile ideato da Sony ma anche tentando di capire più a fondo la nostra epoca iperconnessa.

Per gentile concessione dell'autore e dell'editore pubblichiamo in anteprima un estratto da "Lo sguardo di Vic".

La Sony non se la passava benissimo nella seconda metà degli anni Settanta. L’azienda che voleva passare per “la Cadillac dell’elettronica” doveva digerire un clamoroso buco nell’acqua: il sistema di videoregistrazione Betamax, lanciato nel 1975, era stato preso in contropiede dal rivale Vhs della Jvc, qualitativamente inferiore ma in grado di garantire fino a quattro ore di registrazione per ogni videocassetta. Alla fine del decennio, il sistema Vhs si proponeva sempre più come standard, anche se quello Betamax non fu trasferito subito nello sgabuzzino delle invenzioni abortite. La Sony continuò infatti a supportarlo
fino alla metà degli anni Ottanta, ma si trattò sostanzialmente di accanimento terapeutico.

Niente di strano. Dinamiche di questo genere si verificano regolarmente, trattasi di normale attrito tra mercato e innovazione tecnologica: qualcuno ricorda il LaserDisc o il computer palmare? La stessa Sony lanciò nel 1992 il Minidisc, una specie di floppy disc che nelle intenzioni dell’azienda giapponese avrebbe dovuto sostituire l’audiocassetta e proporsi come alternativa al cd. Lo avrebbe promosso convintamente per vent’anni, con i risultati che sappiamo: scarsi. Del resto, il progresso procede spesso sui propri stessi rottami, ha bisogno di questi tecno-abbagli, del naufragio di grandi progetti che in qualche modo indichino il percorso più opportuno – o più conveniente – da seguire.

La Sony, in ogni caso, rimaneva una grande azienda e un punto di riferimento tra quelle del suo settore. In ragione di ciò non si fece scoraggiare e trovò presto un modo per riscattarsi. Pare che si debba a Akio Morita, uno dei vertici dell’azienda nonché
cofondatore, l’idea di un apparecchio che consentisse di ascoltare musica senza dover rimanere nei pressi di un impianto di riproduzione, ovvero abbastanza piccolo e maneggevole da permettere di portarlo con sé. Si narra che l’illuminazione abbia colto Morita – emblematicamente – mentre passeggiava per le vie di New York.

Esiste però un’altra versione della storia, secondo cui l’intuizione sarebbe da attribuire a Masaru Ibuka, anch’egli cofondatore della Sony, che sarebbe stato visitato dal “momento eureka” durante un volo transoceanico: appassionato di musica classica, aveva l’abitudine di portare con sé in aereo il TC-D5, un registratore e riproduttore di audiocassette lanciato dalla Sony nel 1978 in grado di garantire ottime prestazioni ma ingombrante più o meno come un vocabolario. Ibuka avrebbe perciò dato indicazioni al dipartimento di ricerca di sviluppare un dispositivo più compatto: il resto sarebbe (è) storia nota.

Che dire: hanno entrambi l’aspetto di racconti credibili e al tempo stesso accomodati, tanto da somigliare a miti di fondazione. Nel caso di Morita va aggiunto che si era trasferito negli Usa con la famiglia nel 1963 con il preciso scopo di confrontarsi
da vicino con la mentalità del consumatore americano. Preso domicilio a Manhattan, nella celebre Fifth Avenue, Morita organizzava party, faceva sport, tesseva relazioni. Osservava. Questa immersione nel cuore della società più dinamica del pianeta avrebbe dovuto costituire la chiave per decifrare il codice di desideri non ancora esistenti, quelli che appunto la
tecnologia era chiamata a generare con la promessa stessa della loro soddisfazione.

Che vada attribuita a Ibuka o Morita, l’intuizione del Walkman fu un autentico colpo di genio. E lo fu anche per come all’epoca fosse tutt’altro che scontato immaginare un’invenzione del genere. I due cofondatori non ebbero infatti gioco facile a imporne la progettazione: gli ingegneri della Sony trovavano che si trattasse di un’idea retrograda dal punto di vista tecnologico, dal momento che non prevedeva la funzione di registrazione e, soprattutto, alcun altoparlante.
Inoltre, per motivi di economia e portabilità le cuffie sarebbero state delle “cuffiette”, dalla resa audio neanche lontanamente paragonabile ai più voluminosi e costosi modelli per ascolto casalingo disponibili sul mercato.

Il progetto andò comunque avanti senza intoppi. A parte la questione relativa al nome.
“Walkman” – ricalcato sul Pressman, un dittafono uscito con successo pochi anni prima – non piacque alla divisione americana della Sony, che a ragione lo riteneva una saldatura goffa e sgrammaticata tra "to walk" e "man". Perciò al momento del lancio del dispositivo, avvenuto il 1° luglio del 1979, si determinò una situazione come minimo bizzarra: negli Stati Uniti fu presentato come Soundabout, in Svezia fu scelto Freestyle mentre la divisione del Regno Unito optò per Stowaway. Altrove, probabilmente per la minore confidenza con l’inglese, fu approvato Walkman.

L’impatto sul mercato non sortì i risultati auspicati. Una situazione che spinse la dirigenza a rivedere le strategie promozionali: finalmente fu imposto come “Walkman” su tutte le piazze e in breve le vendite andarono meglio, per decollare nel volgere
di poche settimane. Il nome, tuttavia, fu solo uno dei fattori che determinarono questa svolta. Ben più importante fu l’aggiustamento di rotta dal punto di vista promozionale. La Sony capì infatti quanto fosse importante comunicare la natura performativa del Walkman, il cambio di paradigma che si pensava avrebbe determinato nelle vite degli utilizzatori. In ragione di ciò, fu ideata una campagna ingegnosa: furono regalati cento dispositivi a un campione di utilizzatori chiamati poi a riportare le impressioni sull’esperienza d’uso in una serie di spot. Il focus si spostò decisamente sulla prassi, anziché sulle caratteristiche tecniche del prodotto. E funzionò.

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