Antonello Venditti a Caracalla, la notte prima degli esami

Antonello Venditti protettore dei maturandi, con tanto di santino che oggi verrà distribuito in vari licei. A loro ieri sera, alle Terme di Caracalla, ha dedicato “Notte prima degli esami”, uscita quarant’anni fa, eseguita proprio alla vigilia della prima prova scritta, mentre tanti stavano ripassando, faticando a prendere sonno, o, come Venditti fece nel 1966, avevano chiuso i libri per andarsi a tuffare nell’ultima notte prima del resto della vita da adulti: «Io e il mio amico Oliviero andammo a farci un giro in moto a Firenze, tornammo in tempo per l’apertura dei cancelli» ha ricordato in camerino. Non pochi «coraggiosi» erano presenti al concerto, qualcuno ospite sul palco, altri cantavano all’ingresso del liceo Giulio Cesare.
Prima di esibirsi, Venditti si è detto emozionato, perché «Tutto è nato qui e qui sono rinato». Le canzoni di “Cuore”, anno 1984, misero fine al lungo esilio brianzolo, segnarono il ritorno a casa, la risalita dopo una depressione: «La voglia di farla finita, quando sono arrivato a Roma, è scomparsa in un attimo. Mi ha accolto». E da quelle otto tracce ci si aspettava partisse la prima di tre tappe romane (sold out), avvio del tour estivo. Invece no. E non è poi così strano. Perché quello di Venditti è un lungo discorso artistico, incapace di prescindere dalla storia italiana e personale, e quindi, al cuore, ci si deve arrivare. Non si possono capire gli anni Ottanta senza riprendere dai Settanta raccontati da “Sotto il segno dei pesci”, i cui brani scandiscono gran parte del primo atto.
Le note iniziali, dal grado zero in crescendo, evocano infatti l’alba, la genesi, con l’intro straussiana di “Così parlò Zarathustra”, la stessa usata nel tour in coppia con De Gregori. Ci apriva i concerti anche Elvis, ma a tutti viene più in mente il monolite del film “2001: Odissea nello spazio”, simbolo della nascita della coscienza, quindi anche della violenza, ed è subito 1978, tra dimensione collettiva e anni di piombo. Venditti si presenta con gli iconici Ray-Ban scuri, e a Caracalla tutti lo cantano. Pochi sanno, o si chiedono, cosa ci abbia messo dentro le canzoni. Ognuno le ha fatte proprie, eludendo il senso originale, altrimenti non sarebbe stato possibile vedere insieme - come si è visto ieri - il senatore Gasparri, esponenti di Fratelli d’Italia e il sindaco Gualtieri. «Quando una canzone diventa popolare, non sai più chi l’ha scritta: diventi un anonimo romano» ha spiegato il cantautore.
Eppure è giusto, perfino divertente, ficcanasare nei sottotesti vendittiani, perché dietro ogni suo brano strapopolare, esiste un vissuto più complesso. A cominciare da “Bomba o non bomba”, il cammino avventuroso e metaforico suo e di De Gregori da Sasso Marconi a Roma, ideale meta di fratellanza e musica per il cambiamento. Tutti scandiscono il ritornello con il sorriso, ma dire “bomba”, al tempo, era un’altra cosa. L’aria era tesa. Poco dopo ci fu la strage di Bologna.
“Sotto il segno dei pesci” è un altro “camouflage”, un altro pezzo a doppia lettura: s’immagina una storia di coppia, però, guarda un po’, uscì otto giorni prima del sequestro Moro. Il brano non è affatto una trovata zodiacale. Quando Venditti racconta cosa ne è stato degli ex compagni, canta della fine delle illusioni del ’68: “Diciott’anni sono pochi per promettersi il futuro/ma tutto quel che voglio, pensavo/ è solamente amore ed unità per noi”. Era, ed è ancora, la sua idea di rivoluzione, laica e cristiana.
Allo stesso modo, i suoi ritratti femminili sono cronache di emancipazione: “Giulia” è uno dei primi racconti di fluidità sessuale. Maggioranza e opposizione? Sugli spalti la cantano entrambi. In “Sara”, la protagonista portava a termine la gravidanza pur non essendo sposata. Venditti la fa quasi tutta piano e voce, in una bella versione che sembra un gospel. Altrove lo accompagna una band ormai rodatissima e potente, che lascia ampio spazio ad assoli di chitarra elettrica e sax. Danno una veste energica anche a “Lacrime di pioggia” (del 2003, dedicata al padre) e a “Peppino” (del 1986, reincisa con De Gregori), nata per gli orfani di guerra eritrei. È “Giulio Cesare” che riporta l’atmosfera nelle aule, ai trentaquattro della terza E, alla contestazione studentesca, al vento nuovo di “una coscienza popolare”, ma anche alla Giovine Italia di estrema destra, e a Paolo Rossi, ma stavolta lo studente pestato nel 1966 dai fascisti, diventa un ragazzo del 1986, calciatore ai mondiali.
È la canzone perfetta per collegarsi al set centrale, con “Notte prima degli esami”, una delle poche volte che Venditti torna ai tasti, e fa il primo parlato: «Ragazzi, non rinunciate alla libertà, alla possibilita di dire “no”. Sul pianoforte bianco, campeggia l’iconico panama, stessa immagine della copertina di “Cuore”, che esegue integralmente, con due semidebutti dal vivo: “Mai nessun video mai” e “L’ottimista”. Anche qui c’era una dose di lungimiranza: davanti al culto dell’immagine che dilagava negli anni ‘80, alla nascita dei video musicali, lui invitava a non perdere il contatto fisico e reale sperimentato nei Settanta. Aggiunge oggi: «Spero di essere ricordato per qualcosa di umano, per una stretta di mano, per un vaffanculo, insomma, non per un artefatto». E poi, siccome nel 1984 Bettino Craxi era Presidente del Consiglio, Venditti descriveva i politici seri che si illuminavano d’immenso all’ora di pranzo. Otto anni dopo, scoppiò Tangentopoli. Se lo ricorda bene: «Il potere odia la satira e l’ironia. Questo brano fece incazzare tutti. Parlavo di edonismo craxiano, è nato lì tutto quello che c’è stato dopo, da Berlusconi a Giorgia».
Poi affonda in “Qui”, e presenta un’altra rarità, “Non è la cocaina”, sintetizzatori e ritmica funky: «Erano i tempi in cui Vecchioni finiva in carcere per uno spinello, e Vasco per la cocaina. Spero sia un’Italia lontana. Per me la droga più potente è l’amore, e Roma». “Ci vorrebbe un amico”, in tonalità più alta rispetto al solito, e non intima, ma sospinta dal gruppo, è dedicata a Dalla: «Tra le poche cose che ha fatto la giunta Raggi, su mia insistenza, c’è la targa messa a Vicolo del Buco, dove abitava Lucio».
Gli aneddoti del concerto di Bob Marley a San Siro nel 1980, quando Milano era Giamaica, e un esilarante incontro fra i due in ascensore, anticipano la reggaeggiante “Piero e Cinzia”, poi «la canzone più bella del disco», “Stella”, seguita da “Di’ una parola”, il nuovo singolo, cover di “Say Something” del duo statunitense A Great Big World in collaborazione con Christina Aguilera. Venditti la fa sua. A livello melodico e armonico gli calza a pennello, ma per rispettare metrica dell’originale, inanella un testo conciso, meno descrittivo del solito.
Terzo atto di un concerto dinamico, festoso, con pochi momenti raccolti: i successi sparsi e irrinunciabili. “Che fantastica storia è la vita”, “Dalla pelle al cuore”, “Unica”, “Amici mai” e “Alta marea”, dove la sua voce duetta con il sax, fa quasi scat. Tutti in piedi su “Benvenuti in paradiso”, “In questo mondo di ladri”, “Ricordati di me”. Nessuno sta zitto durante il greatest hits, che è il contrario del karaoke. Nel karaoke ognuno si esibisce da solo, nel greatest hits rincorre gli altri, rallenta, accelera, cerca la fusione nel coro. Quando Venditti se ne va, in migliaia intonano l’inno giallorosso “Roma Roma Roma”. Non lo farà. Nemmeno “Grazie Roma”. Chiude con l’affresco di “Roma Capoccia”, e si capisce perché il 13 novembre, in Campidoglio, il cantautore riceverà la Lupa Capitolina. Di questa città è cantore e sampietrino, materiale edile intangibile. Osservatore, partecipante e collante.
A chi gli ha chiesto, dietro le quinte, cosa pensa della musica di oggi, ha risposto che promuove Madame, detto che Annalisa («bravissima cantante») e Angelina Mango sembrano «costrette da un mercato, deciso non so da chi, a diventare altro da sé stesse. Noi, a differenza loro, questa paura di essere dimenticati non ce l’avevamo». Il fatto è che Venditti non somiglia a nessun altro. Ha uno stile riconoscibile, solo suo. Sa far credere di parlare di eterni ragazzini in motorino, alle prese con Dante e Ariosto, a caccia di amori, però se vuoi, lì dentro, ci trovi pezzi d’Italia. Parla di capitomboli e nefandezze umane, ma non è mai pessimista e sfiduciato. Vale per lui il sottotitolo di “Così parlò Zarathustra” di Strauss: “Ottimismo in forma fìn-de-siècle, dedicato al XX secolo”. E al ventunesimo. Non è solo un tiratore scelto, infallibile sui titoli, sui ganci, sulle parole semplici che traducono sentimenti condivisi, ma una memoria storica, carica di flashback, e quindi in grado di fare previsioni, di restare nel tempo.