Tra passato, futuro e (in)fedeltà: in 15 mila per i CCCP a Roma

“Ciò che fu. Ciò che è stato. Ciò che è. Ciò che è scampato. Cellula dormiente risvegliata al presente. All’erta sto. Inquieto l’orizzonte. All’erta sto”, declama Annarella Giudici, illuminata da un occhio di bue al centro del palco, all’inizio del concerto. È l’esergo di questa storia. Che contiene dentro tutto quello che sono stati i CCCP e quello che sono oggi. Giovanni Lindo Ferretti, giacca e camicia, tiene le mani nelle tasche dei pantaloni mentre comincia a cantare, evitando ogni forma di divismo, “Depressione caspica”, uno dei brani tratti da “Epica Etica Etnica Pathos”, l’ultimo album pubblicato dai CCCP prima che la band iniziasse a mutare forma e nome. Era il 1990. L’Unione Sovietica aveva cominciato a disgregarsi da qualche mese, prima del definitivo collasso dell’anno successivo. È da lì che sul palco del Rock in Roma, dove ieri sera ha fatto tappa il tour della reunion, Lindo Ferretti, Massimo Zamboni, Annarella Giudici e Danilo Fatur sembrano voler ripartire, quasi come a riannodare i fili di un discorso spezzato, predicatori di un mondo ormai scomparso - di cui portano sul palco alcuni rottami - ma di cui tengono viva la memoria. “Prima era troppo presto. Adesso sembra tardi, ma adesso è il nostro tempo. Tra passato, presente e futuro, in fedeltà la linea c’è”, assicura Annarella, mentre qualche fan è ancora allo stand del merchandising a comprare le magliette ufficiali del tour a 30 euro (chissà se la più venduta è quella di “Amandoti” o quella con su stampato “Io sto bene / io sto male”).
Quando nel 1984 con “Ortodossia” i CCCP - nati tre anni prima a Berlino dall’incontro tra due concittadini reggiani, Ferretti e Zamboni, che si erano ritrovati nella capitale della DDR - piombarono sulla scena rock italiana, con quell’attitudine iconoclasta che li contraddistingueva volevano spazzare via tutto. Oggi Ferretti, Zamboni, Giudici e Fatur sono diventati materiale da museo (la mostra “Felicitazioni! CCCP - Fedeli alla linea 1984-2024” da ottobre a marzo a Reggio Emilia è stata vista da 45 mila visitatori) e da celebrazioni, come quel del tour del quarantennale di “Ortodossia”, che ha fatto discutere. A Bologna, lo scorso marzo, ha destato scalpore il fatto che il costo del biglietto per i CCCP in Piazza Maggiore a Bologna - sold out - fosse pari a 50 euro: “Dai CCCP degli Anni ’80 tanto è cambiato, ma ancora oggi quei pochi album registrati alla buona, senza pretese, riescono a toccare corde profonde tra giovani e giovanissime. Per cui crediamo che sia ancora più inaccettabile che quei suoni, quei testi, vengano resi di nicchia chiedendo 50 euro di ingresso”, ha protestato il Collettivo Universario Autonomo di Bologna. Quelli per lo show all’Ippodromo delle Capannelle, di biglietti, non costavano molto meno: 40 euro il prezzo per il singolo tagliando, più diritti di prevendita ed eventuali commissioni addizionali. In 15 mila hanno risposto “presente”, tra chi ha vissuto l’epopea dei CCCP e giovanissimi che sono stati affascinati negli anni dalla storia dell’iconico gruppo ma anche non avevano mai potuto vedere in azione su un palco Ferretti e soci.

In una Capannelle trasformata per una sera in un Csoa, un centro sociale autogestito, il quartetto ha proposto uno show pensato sostanzialmente un viaggio nella memoria collettiva di una parte d’Italia, in bilico tra il trionfo e il disastro, tra l’epico e il malinconico, un po’ caricaturale. “Rozzemilia”, “Tu menti”, “Per me lo so”: i pezzi in scaletta somigliano alle pagine di antichi manoscritti che hanno resistito ad esplosioni atomiche, a un’apocalisse culturale. “La morte è insopportabile per chi non riesce a vivere / la morte è insopportabile per chi non deve vivere”, canta Ferretti, assorto, sugli arpeggi di Zamboni in “Morire”, mentre Annarella mostra alla folla uno scudo con sopra la falce e il martello. Poco dopo la “benemerita soubrette” si metterà a correre come una forsennata sul palco, a rappresentare i lati oscuri del capitalismo: “Produci, consuma, crepa”, urla Ferretti. A suo modo, lo show è anche disturbante. Molto disturbante. Su “Stati di agitazione” Danilo Fatur, l’”artista del popolo”, tiene la testa bloccata in mezzo alle due tavolette di una pedana di legno con su scritto: “Banditen”. Ha delle catene strette intorno ai polsi. “Eppure sono vivo”, canta il frontman. Che poi, quasi senza soluzione di continuità, chiude uno ad uno i bottoni della giacca lasciando aperto solo l’ultimo, mostrando il colletto della camicia come se fosse quello di un prete. “Libera me domine” è una preghiera laica che Ferretti interpreta a occhi chiusi mentre Annarella, vestita da suora, tiene tra le mani una candela accesa.
“Valium Tavor Serenase” fa scatenare la folla, “Radio Kabul” viene aggiornata rispetto al 1987, l’anno in cui i CCCP spedirono nei negozi “Socialismo e barbarie”: oggi Ferretti canta di “guerre in mondovisione” e di “pornografia domestica, l’ultima frontiera dell’emancipazione”. C’è anche una nuova strofa: “All’erta sto come un russo nel Donbass / un armeno nel Nagorno-Karabakh”. Ferretti, Zamboni, Giudici e Fatur sembrano cantare, suonare e ballare sopra il senso di prigionia che avvertono nei confronti di un mondo, un tempo, che non gli appartiene. Non sono orgogliosamente fuori tempo e anacronistici. Sembrano, semmai, disperatamente fuori tempo e anacronistici. Quando su “Punk Islam” Ferretti vede con la coda dell’occhio i ragazzi pogare sotto il palco, sembra come rassicurato, commosso. Su “And the radio plays” dal pit s’alza una voce fuori dal coro, in romanesco: “Ma poi votà la Meloni?”, urla un ragazzo, alludendo alla foto di qualche anno fa, diventata virale, che ritraeva il cantante al fianco della leader della nuova destra italiana. “In fedeltà la linea c’è”, ribadisce l’ex interprete del “punk filosovietico” nei nuovi versi di “CCCP” (nell’86 cantava il contrario: “La linea non c’è”).


Su “Curami” il cantante indossa un elmetto, mentre Annarella sfoggia un abito che riproduce la bandiera italiana. È una bandiera diversa quella che la “benemerita soubrette” pianta sul palco sulle note di “Emilia paranoica”, invece: quella rossa dello storico Partito Comunista Italiano, con il logo della falce e del martello color giallo. “Annarella” è un’altra preghiera: “Non dire una parola che non sia d’amore”, canta Ferretti all’unisono con i 15 mila sotto il palco, in uno dei momenti più struggenti del concerto. Di quel mondo perduto provano a rispolverare anche altre pagine. Come quelle di “Kebabträume”, brano tratto dal repertorio dei Deutsch-Amerikanische Freundschaft, gruppo cult di punta della Neue Deutsche Welle, la scena tedesca di fine Anni ’70 che si originò dal punk rock e dalla new wave. E alla fine del rito, anche l’immancabile “Amandoti” - Ferretti la scrisse nel ricordo di sua nonna per Annarella Giudici, prima di inciderla con i CCCP per “Epica Etica Etnica Pathos”: a renderla una hit ci penserà nel 2004 Gianna Nannini - sembra assumere un altro significato. Non più una straziante lettera d’amore ispirata a una grande perdita, ma una preghiera alla compassione di chi è sotto al palco: “Amami ancora, fallo dolcemente”. Nonostante la malinconia.