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L’utilizzo del playback accende ancora una volta nuove polemiche

Nel mirino, a questo giro, è finito Travis Scott. La performance può prescindere dal cantare?
L’utilizzo del playback accende ancora una volta nuove polemiche
Credits: ©elenadivincenzo

Artisti e performance in playback: una storia lunga decenni. Usare basi registrate serve in condizioni particolari, perché rende più facile la produzione, ma viene spesso percepito come una "falsificazione". Nel 1975 i Queen si rifiutarono di cantare in playback a "Top of the pops": nacque così il videoclip di  “Bohemian Rhapsody”, considerato uno dei primi della storia; secondo quanto raccontato da Brian May e Roger Taylor nella serie di mini-documentari “Queen: The Greatest”, la band fu invitata al programma  ma “non ci piaceva molto l’idea di stare su uno di quei piccoli palchi a fare finta di suonare un pezzo così complesso”, raccontò Brian May.

E così sotto la regia di Bruce Gowers, i Queen realizzarono la clip di “Bohemian Rhapsody” perché andasse in onda durante il programma. Poi venne veicolato in maniera seriale e preso a modello da altri artisti e dall'industria discografica. Il resto è storia, con la “S” maiuscola. Questo per ricordare quanto l’utilizzo del playback, da sempre, viaggi su un percorso di carboni ardenti, con artisti che lo utilizzano e altri che si rifiutano di adoperarlo. Spesso, quando sono costretti a usarlo, i cantanti lo ridicolizzano: è successo con gli stessi Queen a Sanremo (con Mercury che teneneva volutamente lontano il microfono), con i Blur che si esibirono sempre al Festival con un cartonato sul palco. O come la famosa esibizione dei Muse a "Quelli che il calcio", con i membri della band che si scambiarono i ruoli (con Matt Bellamy alla batteria).

Il punto di Marracash 

Il tema è sempre attuale, solo lo scorso inverno se ne tornò a parlare per l'esibizione di Rihanna all'halftime show del Superbowl: la complessa macchina produttiva dello show fece sospettare che la performance vocale fosse pre registrata. Ma fin qua abbiamo citato esempi televisivi: in concerto è un'altra storia. Spesso si usano basi pre-registrate, certo, ma "cantare" anche in playback? Hanno fatto discutere le recenti esibizioni a Milano e a Roma di Travis Scott: una star di livello mondiale, capace di muovere le masse, che, però, a livello di tecnica sul palco, lascia molto a desiderare. Lo abbiamo scritto: Travis rappa e canta pochissimo, sfrutta al massimo basi e sequenze, è soprattutto immagine, movimento, energia. La sua è un’esibizione che, paradossalmente, sembra prescindere dalla musica. È accompagnato da un dj, una forma classica nella storia dell'hip-hop, ma la sua performance è più ispirazione che metodo: ai fan sembra andare bene così perché il risultato finale, anche questo va sottolineato, nel suo caso funziona.

Esse Magazine, sulle critiche rivolte a Travis e al suo costante utilizzo del playback, ha pubblicato su Instagram un post dal titolo “Ma il playback ai concerti è davvero il problema?” che, al netto della posizione assunta dal magazine che non vuole demistificare le pre-registrate, ha riportato al centro il tema. Il tutto con affermazioni discutibili, come se il playback fosse percepito come "un problema" solo nel pop, nel rock, non nel rap. Infatti, a scatenare malumori è stato il passaggio del post in cui viene scritto “ne fanno uso tutti”, a cui ha voluto rispondere personalmente Marracash, che in questi anni ha contribuito ad alzare notevolmente l’asticella dei live rap in Italia: “Dire ‘lo fanno tutti’ è semplicemente una bugia e svaluta invece chi cerca di fare una esibizione live che sia davvero live. Non è che invece siamo così esterofili che se lo fa Travis allora va bene? Il rap viene da sempre additato come genere ‘inferiore’ nelle esibizioni live ad altri generi come il rock ad esempio. Non credo che il playback aiuti in questo senso”. 

Il caso Yungblud

Altri rapper tra cui Gemitaiz, sotto il post, hanno voluto esprimere il loro pensiero, quasi sempre avverso all’utilizzo del playback. Salmo, un altro artista da sempre in prima linea nella realizzazione di live suonati, cantati e di alta qualità, è intervenuto con una serie di stories in cui spiega che non esiste la parola “live” senza “il rappare e il cantare dal vivo”, e ricorda anche come il livello di molti rapper americani di nuova generazione sia “basso”. Credere che questo sia un nodo presente solo nell’attuale mondo hip hop significherebbe limitare il campo del dibattito: anche le nuove leve del rock, proprio come Travis Scott, vengono bersagliate su questo aspetto. Yungblud, due anni fa, decise di rispondere pubblicamente a un fan sui social che scriveva “fai finta di suonare chitarre che non sono nemmeno attaccate”. “Aprite bene le orecchie - scrisse la voce di ‘The funeral’ - si tratta di un amplificatore wireless, quindi non ha bisogno di cavi. Ecco perché non li ha. Inoltre suono il riff di chitarra che raddoppia la traccia della canzone. Quindi posso finire di suonare prima per cantare perché sono coperto dal basso. Difenderò sempre la mia arte e non avrei mai dovuto spiegarmi a qualcuno, ma internet è pieno di coglioni, quindi ecco a voi".

Cosa significa "live"?

Ha ragione Nayt quando sotto il post di Esse, scrive: “Io assisto a un live di Kendrick Lamar e la mia sensazione anche solo inconscia è che nessun altro al mondo potrebbe riproporre tecnicamente e concretamente quello a cui sto assistendo”. Il punto è proprio questo: è sbagliato screditare Travis Scott e il suo modo di concepire un’esibizione, ma allo stesso tempo non può essere preso come modello. E neppure può essere “sdoganato” come live tout court, semplicemente perché non lo è. Ha ragione di esistere? Sì. È interessante? Sì, ma più come fenomeno di aggregazione sociale che come concerto. È giusto esaltarne alcune sfumature, ma perché non metterne in luce, a livello critico, alcuni evidenti limiti?

Allo stesso tempo, forse bisogna intendersi sulla parola "live": oggi quasi nessuno è completamente "dal vivo" nel senso classico del termine. C'è chi da anni, come Enrico Ruggeri, sostiene che gli artisti dovrebbero suonare senza basi  ("le considero un espediente di bassa lega per ingannare i più ingenui, riducendo i musicisti a comparse"). È una posizione radicale, praticabile solo per certi tipi di concerti: oggi "il live" è una macchina complessa e tecnologica, che spesso non può prescindere da parti pre-registrate. Allo stesso tempo, però, un concerto che voglia trasmettere un senso di unicità, non può prescindere dalla tecnica interpretativa, canora e performativa. Un mix capace di renderlo vero e vivido, anche nelle sbavature, oltre che nello spettacolo. Un quesito, a cui non vogliamo rispondere in modo troppo frettoloso, ma che lasciamo come ulteriore spunto di riflessione: per una parte delle nuove generazioni la performance musicale di un concerto è ancora un metro di giudizio per valutarne la validità e la forza? O regnano lo show e il vedere di persona (non "dal vivo") l'artista?

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