Travis Scott agli I-Days: in 80mila a saltare sotto la pioggia

Il cielo oscuro, una leggera pioggia, il terreno impregnato d’acqua, un’atmosfera dalle tinte dark. Sembra un campo di battaglia, invece è l’Ippodromo Snai La Maura di Milano. Le lingue di fuoco sputate dal palco ricordano gli sfoghi di un drago. Ottantamila persone, ottantamila corpi pieni di adrenalina, bagnati e zeppi di felicità saltano più in alto che possono. C’è qualche cosa di ancestrale e primitivo nel pogo che accompagna la performance di Travis Scott e che ha sempre caratterizzato tutte le sue esibizioni, c’è qualche cosa di comunitario e simbolico in quell’ammasso scalmanato di braccia e gambe: è la fotografia di quanto l’hip hop, con tutte le sue sfumature - il rapper di Houston ne rappresenta certamente una delle più particolari - sia riuscito, anche in Italia, a realizzare una rivoluzione culturale nel segno delle nuove generazioni, le vere protagoniste del concerto. Sono i numeri e l’entusiasmo, con ragazze e ragazzi in coda sin dalle 11 del mattino, a raccontare al meglio questo vento di cambiamento. Quando venne annunciato, il live, dall’altissimo profilo internazionale, andò sold out in pochissime ore, diventando subito uno degli eventi di musica dal vivo più importanti del 2023. Anni fa chi avrebbe mai scommesso che un rapper americano avrebbe calamitato un oceano di fan giovanissimi?

Ma c’è anche dell’altro: un diverso modo di vivere il live che trascende, paradossalmente, le canzoni. Si salta tutti insieme abbracciandosi, è un pogo soft che non ha nulla a che vedere con quello duro del punk e del metal, ci si riprende con lo Smartphone e si entra in un flusso di brani che spesso sembrano quasi annullarsi e confondersi. Quella di Travis è una tribù. “Highest in the room”, “Butterfly Effect”, “The Scotts”, “90210”, “beibs in the trap” e le finali “Sicko Mode” e “goosebumps” scorrono come se fossero dentro un solo grande fiume. La vera miccia, il detonatore, più che la musica, però è l’energia straripante e contagiosa di Travis. E lo si capisce dal primo momento in cui entra in scena. Ha un’aura quasi mitologica, una forza da gigante e una resistenza non comune, con quel corpo da Bronzo di Riace che taglia l’aria salto dopo salto.

Tutti i movimenti che fa sembrano perfetti per uno scatto d’autore o per la ripresa di un film: in Italia, come in tutto il tour nei festival europei, si presenta con una scenografia ridotta all’osso. Non c’è traccia degli allestimenti mastodontici che lo hanno reso famoso da “Astroworld” in poi. Su una pedana posta sul palco c’è lui, occhiali e giacca nera, megaschermo dietro e ai due lati, a fianco quasi nascosto il dj che gli fa le doppie: nulla di più. Un suono che non si riesce a propagare al meglio in tutta l’area e un’ora di concerto: troppo poco, anche a fronte del costo del biglietto (il più economico costava più di 80 euro), ma i live di Travis sono quasi sempre settati su questo minutaggio. Il rapper canta e rappa poco, sfrutta al massimo basi e sequenze, interagisce in modo lineare con il pubblico fino a quando, con una trovata molto americana, fa salire sul palco un ragazzo del pit: saltano insieme e alla fine Travis gli regala le sue scarpe, rimanendo scalzo per il resto dell’esibizione. Nella parte centrale il concerto si appiattisce, dopo un tot di balzi e fiammate, subentra la ripetizione e la noia, ma la maggior parte dei presenti non sembra accusarla perché non è la musica, come si diceva, la vera luce a fare da guida.

È quello che Travis emana a vincere su tutto, è il suo essere un demiurgo a svettare e a convincere, anche al netto di una performance che se paragonata a quella di altri colleghi come Kendrick Lamar, Nas, Kid Cudi, Eminem o Post Malone (artisti che ho avuto modo di vedere dal vivo) è tecnicamente inferiore. Ma è pur vero che Travis è “altro”, è un artista la cui prima forma d’arte è la sua stessa presenza, l’immaginario che sa creare e che avvolge tutto quello che fa anche a livello imprenditoriale. L’elettricità che spara sulla pelle di chi lo vede e lo ascolta è la sua vittoria: è questo quello che vuole il suo pubblico. Da ragazzo, la sua storia lo insegna, non ha mai smesso un secondo di credere nei suoi mezzi fino a quando, in uno dei momenti più difficili del suo percorso, scrivendo senza alcuna aspettativa e pretesa ad Anthony Kilhoffer, fonico di Kanye West (che di lì a poco poi sarebbe diventato uno dei suoi mentori), ha cambiato per sempre la sua vita. In pieno stile american dream non è mai indietreggiato di un passo, proprio come sui palchi mondiali che adesso calca. Travis Scott dal vivo, oggi, è più immagine che suono, è più ispirazione che metodo. E, forse, è per questo che per molti rimane ancora inimitabile.