Rockol30

Bruce, il soul e la E Street Band

“Only the strong survive” è in uscita, il tour 2023 è in cottura
Bruce, il soul e la E Street Band
Credits: Rob DeMartin

Un disco di cover soul è ciò che Bruce Springsteen avrebbe potuto fare in qualsiasi momento. Nel celeberrimo keynote del 2012 al SXSW di Austin il Boss spiegò per bene che tipo di debito e di riconoscenza avvertiva nei confronti dell’intero genere, e di come il soul e il rhythm and blues avessero contribuito a forgiare la sua carriera e non tanto il suono, quanto il set up e l’atteggiamento della E Street Band. Little Steven, nel tempo, aveva inoltre raccontato più volte come insieme al suo band leader nutrisse la passione per la musica nera, di cui erano diventati due cultori ed esperti da trivia game.
Il che suscita un paio di curiosità: che ne farà, Bruce, di questi quindici pezzi incisi in studio con altri musicisti alla vigilia del ritorno sul palco con il suo gruppo? C’è qualche relazione tra la loro scelta (che non si è rivelata “lineare”, come ci si sarebbe attesi appurando dell’uscita di un suo album di soul covers) e la loro idoneità a essere estreettizzati?
Le mie risposte: (1) poco, temo; (2) non lo so, ma si può sempre provare a immaginare che effetto farebbe.

La voce, senza chitarra

Si può cominciare con l’osservare che Bruce Springsteen ha rotto il ghiaccio con uno dei brani meno impattanti dell’album, eppure ha centrato il suo primo fondamentale obiettivo: “Do I love you (Indeed I do)” ha fissato nell’ascoltatore il senso del suo scopo, ha preparato il terreno al progetto, è divertente e, con il video che lo accompagna, l’artista si è mostrato senza chitarra. Che non è uno scherzetto qualsiasi. Il tempo di assorbire lo shock e, a quel punto, il fan ha potuto finalmente mettersi comodo, pronto ad ascoltare il resto.
In questo piccolo juke-box tematico che è “Only the strong survive”, la sua title track fa subito saltare la selezione in avanti di quattro anni. Se il primo singolo era del 1965 (uscito per l’etichetta Soul, sussidiaria della Motown di cui interpreta lo stile al 100%), questo pezzo è del 1969. Quattro anni che, per chi ama e conosce il soul, sono un’era geologica musicale nel contesto di quel decennio. Li tiene uniti il performer originale, Jerry Butler, al quale Springsteen paga il suo tributo mostrando al mondo che l’album intende pescare molto dalle non-ovvietà. “Only the strong survive”, il brano, ammicca alla disco in embrione guardando il soul ormai dal retrovisore e Bruce, a mio parere, ci sguazza, è nel suo elemento. I due pezzi di Butler, però, sono anche collegati da una linea di basso perfetta, molto dinamica e melodica. Se toccasse a Garry Tallent, equivarrebbe a raccogliere una sfida tecnico-stilistica. Se la E Street Band suonasse dal vivo queste canzoni, la sfida si estenderebbe soprattutto a Max Weinberg, perché la sezione ritmica dovrebbe plasmarsi. Sarebbe, forse, un “momento-Some Girls” per il gruppo: “Only the strong survive” starebbe alla E Street Band come “Miss you” stava agli Stones.

La disco, già che ci siamo.

Tutt’altro che un’estranea in questo album, sbuca tra le quindici cover con “When she was my girl”, che è estrapolata dal canzoniere di un’icona come i Four Tops ma che pesca da un’era post-soul, trattandosi di un brano del 1981 uscito su label Casablanca (ed ogni riflesso condizionato su Donna Summer è lecito e doveroso); e “Western Union man”, di 13 anni prima, che anticipa invece quella vibrazione tipica del nascente Philly Sound e porta alla mente atmosfere alla Barry White.
Che farebbe, qui, la E Street Band?
Sciopererebbe.
Oppure no: ci manderebbe in visibilio per la sorpresa. Sarebbe un’operazione alla EELST: li metti sul palco e, mentre la buttano in caciara, suonano qualsiasi cosa con perizia.

Le canzoni più famose 

Tornando al cenno sulla “non ovvietà” delle canzoni scelte da Springsteen, nell’album ci sono comunque quattro pezzi più noti degli altri al grande pubblico. Vediamo quali sono e come si collocano nei criteri di selezione del Boss.
Con “Nightshift”, credo la più celebre anche considerando il suo trionfo in classifica all’epoca della sua pubblicazione, Springsteen osa molto. E’ un brano del 1985, fuori tempo massimo per il soul classico e anche per una Motown allora in crisi di identità; curiosamente, questo pezzo faceva faville proprio al tempo in cui “Born in the U.S.A.” stava rendendo Bruce un affare di fama planetaria per il resto della storia. La scelta dei Commodores (formazione black che piaceva ai bianchi) proprio nel loro tributo agli appena scomparsi Jackie Wilson e Marvin Gaye è forse la chiave di lettura più sensata; però il trattamento soul, qui, è obiettivamente forzato.
C’è poi “I wish it would rain”, pezzo dei Temptations del 1968, a mio parere la seconda più famosa dell’album. C’è una distanza stilistica siderale tra il brano e la E Street Band che, però, potrebbe affrontarla in una sua versione in crescendo - magari con una prima strofa eseguita in modo conforme all’originale, una seconda in transizione e una terza in versione rock.
Anche “What becomes of the broken hearted”, pezzo di marca Motown del 1967, è di una certa notorietà. Qui Jimmy Ruffin fece un gran lavoro ed è possibile, leggendone il testo, che a Springsteen abbia ricordato un suo idolo assoluto, il grande Roy Orbison, che Bruce sembra emulare un po’ nel suo cantato.
Infine “7 rooms of gloom”, un classico a firma Holland–Dozier–Holland che nel 1967 vide i Four Tops fare appieno il loro dovere all’interno del “template” stilistico della Motown: un po’ tetra, sì, ma è una grande canzone e, se non spezzasse il cuore il solo pensiero di non udire le note di Morricone prima che la E Street Band calchi il palco, si candiderebbe al ruolo di intro.

Quote rosa, duetti, scelte (aspettando il sequel)

Pensieri sparsi, per concludere.
In quota rosa ci sono Aretha e le Supremes. La Regina del Soul è rappresentata da “Don't play that song”, del 1970. Al testo è toccato apportare qualche twist, perché la voce narrante qui diventa maschile; questa privilegia un brano che suona più Fifties che non classic soul, con uno stile che richiama “Stand by me” (peraltro, un’altra eco di quel decennio si coglie anche nella cover di “The sun ain't gonna shine anymore” con cui nel 1966 i bianchi Walker Brothers fecero il viaggio inverso a quello dei Beatles e sfondarono in UK).
Le Supremes sono invece rappresentate da “Someday we'll be together”, uscita un anno prima, finita per la dodicesima volta al numero uno dopo non essere stata un successo nella sua versione di Johnny & Jackey per l’etichetta Tri-Phi (poi acquisita dalla Motown). Fu il canto del cigno di Diana Ross, che spiccò il volo per la sua carriera solista.
In tema di leggende, già sappiamo che “Soul days” (brano molto recente rispetto al resto dei pezzi dell’album) vede Springsteen duettare con uno dei suoi guru: è significativo come la voce attuale del Boss sia molto più adatta al soul di quanto sarebbe stata quella sua più giovanile, al punto che si fonde particolarmente bene con quella di Sam Moore (con il quale, come in “Nightshift”, vengono ricordate per nome alcune icone).
Credo che “Turn back the hands of time” – registrata nel 1970 negli Universal Recording Studios di Chicago da Tyrone Davis su etichetta Dakar - sia forse la selezione più azzeccata per contiguità di stile e per resa artistica, grazie alla sua inclinazione più marcata verso blues e r’n’b.
Insieme a “Any other way” (1962) e a “I forgot to be your lover” (1968) è la mia preferita, con la prima che può tranquillamente suonare come il più naturale dei potenziali “e streeter” dell’album e la seconda invece più ballata, più nelle corde di un Bruce solista che riprende l’originale di William Bell.
Gli ultimi due brani citati sono di matrice Stax, dunque la mia faziosità è in agguato.
 
“Only the strong survive” è un disco piacevole: roba da party, leggera e a tratti molto divertente. Difficile che un fan hard core di Bruce Springsteen non abbia qualcosa da eccepire, ma mi piace pensare che l’artista abbia mescolato la sua competenza sul soul allo sfizio di condividere alcuni dei suoi finora inconfessati “guilty pleasures” stilistici e canori.
Sulla copertina c’è scritto vol. 1.
Io già aspetto il sequel (sempre che non l’abbia già pronto) tifando che il Boss si sdrai comodamente sul repertorio della Stax: credo che spaccherebbe.

La fotografia dell'articolo è pubblicata non integralmente. Link all'immagine originale

© 2025 Riproduzione riservata. Rockol.com S.r.l.
Policy uso immagini

Rockol

  • Utilizza solo immagini e fotografie rese disponibili a fini promozionali (“for press use”) da case discografiche, agenti di artisti e uffici stampa.
  • Usa le immagini per finalità di critica ed esercizio del diritto di cronaca, in modalità degradata conforme alle prescrizioni della legge sul diritto d'autore, utilizzate ad esclusivo corredo dei propri contenuti informativi.
  • Accetta solo fotografie non esclusive, destinate a utilizzo su testate e, in generale, quelle libere da diritti.
  • Pubblica immagini fotografiche dal vivo concesse in utilizzo da fotografi dei quali viene riportato il copyright.
  • È disponibile a corrispondere all'avente diritto un equo compenso in caso di pubblicazione di fotografie il cui autore sia, all'atto della pubblicazione, ignoto.

Segnalazioni

Vogliate segnalarci immediatamente la eventuali presenza di immagini non rientranti nelle fattispecie di cui sopra, per una nostra rapida valutazione e, ove confermato l’improprio utilizzo, per una immediata rimozione.