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Dietro le quinte del nuovo album, "Burn to shine"...

Tu chiamale se vuoi emozioni, avrebbe detto qualcuno. Intervistare Ben Harper non è cosa facile, visto che l’uomo non ama la chiacchiera, e risponde spesso a monosillabi. Per Rockol, complice l’incoscienza delle prime ore del mattino, Harper ha però fatto una specie di eccezione, visto che alla fine l’artista californiano ha provato a raccontare in modo alquanto dettagliato come è nato il suo nuovo album, “Burn to shine”. Un disco decisamente emozionante, nato sull’onda di un flusso creativo che ha tenuto la band in sala per sei lunghi mesi…

Nell’estate del ’98, quando sei venuto a suonare a Imola, avevi detto che il nuovo album, almeno dal punto di vista compositivo, era già pronto. Hai usato realmente quelle canzoni o nel frattempo ne hai scritte delle altre?
Nell’estate del ’98 avevo veramente pronte tantissime canzoni. Il vero problema diventa scegliere quali incidere e quali accantonare. E poi non abbiamo potuto registrare subito l’album perché avevamo ancora molte date da fare.

Quante canzoni hai pronte al momento?
Ben mostra una cartelletta piena zeppa di fogli Ogni pagina che vedi potrebbe diventare una canzone. di fatto posso dire che giro sempre con le mie canzoni sottobraccio, e nel frattempo scrivo cose nuove…

Be’, potremmo chiuderci in questa stanza, adesso, e approfittando del fatto che c’è un pianoforte potresti registrare un altro album…
Sì, ho già in mente il titolo: “The solo piano recordings”…

Funzionerebbe, non credi?
No, perché non sono per niente bravo a suonare il piano!

Davvero?!
Sì, lo suono con due dita, come quando scrivo al computer…no, in realtà so fare gli accordi, ma non mi so spostare sulla tastiera e nemmeno passare da un accordo all’altro! Sono molto lento…

Si direbbe che il suono del piano ti piaccia, visto che è presente anche sul tuo nuovo album…
Sì, mi piace molto. Il piano, il Fender Rhodes, l’Hammond B3, le tastiere…

Su questo disco c’è anche un’orchestra in un brano, “Beloved one”: è una canzone molto bella…
Grazie mille. E’ un brano a cui tengo molto…

Questo disco ha un’atmosfera molto delicata e intimista, pur senza perdere le sue coordinate rock…ci sono canzoni con orchestra come quella, poi un brano potente come “Please bleed” e ancora un soul blues come “Two hands of a prayer”…
“Two hands of a prayer” è una canzone che mi piace tantissimo…sono molto contento che ti abbia colpito…

Di cosa parla? Si direbbe di una donna…
No, in realtà, o cioè, sì, in realtà. In parte sì…ma non solo di quello. Non è questo il punto: quando parlo di qualcuno utilizzando al femminile si pensa sempre che possa essere una donna – e nella maggior parte dei casi è davvero così – però non sempre si coglie nel vero: ad esempio potrei parlare della musica, del suo potere, oppure ancora di emozioni di un certo tipo, di una certa qualità.

Nel disco ci sono brani come “Please bleed” e “Show a little shame” che sembrano quasi dedicati o rivolti ad un’entità femminile, vista come un qualcosa di molto potente: avevi in mente qualche persona in particolare?
Cosa ti piace scrivere, nei tuoi testi?
Storie, immagini, racconti. Qualunque cosa, purché sia vaga e interpretabile in più modi. Non mi piacciono gi autori che spiegano le proprie canzoni, così come non mi piacciono quelli la cui scrittura va sempre e soltanto in una sola direzione. Quando scrivo un pezzo cerco di fare di ogni riga una storia a sé, e a volte riesco addirittura a scrivere più storie o a evocare più immagini all’interno della stessa riga… La cosa bella delle canzoni è che in un verso puoi parlare di una cosa, in quello successivo di un’altra e in quello dopo di un’altra ancora…così una canzone finisce per avere diversi significati. Può diventare una cosa pazzesca, veramente intricata! Anche la canzone più semplice può riservarti delle sorprese…

Ma quando scrivi cerchi di dare un ordine alle parole e alle frasi che ti vengono oppure ti lasci guidare dalle immagini della canzone?
Entrambe le cose. A volte devi costruire le frasi, e poi smontarle e rimontarle di nuovo, mentre a volte è la canzone che ti chiama in perfetta solitudine, e allora quello diventa un lavoro che si svolge nota per nota, parola per parola.

Perché mi hai detto di essere contento per il fatto che mi piace “Two hands of a prayer”? E’ un brano che ha qualche significato particolare?
Beh, è una canzone di cui sono molto orgoglioso. Mi piace il lavoro che ho fatto con la 12 corde in quella canzone…e poi è bello avere un feedback ogni tanto. Tutti ti dicono che sei bravo, ma nessuno ti dice perché e dove…

E’ stato difficile arrivare a questo suono così aperto, per “Burn to shine”?
Era il suono che volevamo. Ci è voluto molto tempo per arrivare a questo suono; soltanto le registrazioni sono durate sei mesi, e naturalmente i costi si sono alzati un po’. Conosco gruppi che avrebbero speso il doppio di quanto abbiamo speso noi, perché in realtà non abbiamo bisogno di niente se non di una buona sala. Lo studio era ottimo, e così abbiamo potuto lavorare. Ci abbiamo messo tanto non perché fossimo stanchi o perché procedessimo con lentezza: no, sono stati sei mesi molto veloci, abbiamo lavorato a dei ritmi durissimi.

Cosa è successo? Avete inciso molte canzoni e poi è stata dura scegliere cosa inserire?
In realtà no, visto che ci abbiamo messo due settimane per arrangiare le canzoni. Non ho fatto altro che suonarle al nostro produttore, JP Plunier, e insieme abbiamo cercato la giusta direzione in cui muoverci. Poi siamo entrati in sala per registrare. Una volta lì, abbiamo deciso di registrare una canzone alla volta, piuttosto che incidere le singole parti di ogni canzone, come si fa normalmente: prima le batterie, poi i bassi, ecc. E così rimanevamo fissi su un brano fino a quando non sentivamo che era perfetto; soltanto allora ci spostavamo a registrare il successivo. E’ un procedimento molto intenso, e che porta a perdere più tempo sulle canzoni, ma questa volta ci siamo potuti permettere il lusso…credo che siamo riusciti a ricercare e realizzare le nostre idee con molta più completezza che in passato.

Lavorando in questo modo immagino che la registrazione si trasformi in una sorta di ‘work in progress’: hai trovato grosse differenze tra il primo brano che avete inciso e l’ultimo?
Assolutamente sì: non so se è una cosa che si riesce a notare dall’esterno, ma per quanto riguarda noi è molto evidente. I suoni nel corso delle registrazioni sono cambiati, così come è cambiata l’attitudine dei musicisti. E’ stato come fare un viaggio dentro la musica.

Infatti il punto dell’album è proprio questo: c’è una sorprendente varietà di strumenti che compare nei diversi brani, così come una varietà di stili che compone le canzoni di “Burn to shine”…
Hai ragione, ed è una cosa che ci è piaciuta molto. Forse all’inizio le canzoni non erano neanche così diverse l’una dall’altra, almeno nelle intenzioni e nel feeling originario. Poi però nel corso della preproduzione abbiamo iniziato a svilupparle seguendo le loro differenze, piuttosto che tenerle insieme grazie alle affinità: e così il risultato è stato questo disco, molto vario.

Che musica ascolti in questo periodo?
Sono pazzo per l’album dei Gov’t Mule (la band del chitarrista degli Allmann Brothers, v. recensioni Rockol, ndr): mi sembra il disco più bello dell’anno, davvero. Un po’ di sano rock-blues a mille chilometri l’ora! Mi ha veramente fatto bene ascoltare quel disco, è stato come manna dal cielo. Lo consiglio a tutti i navigatori di Rockol!

E poi?
Un po’ di tutto. Cerco di tenermi informato, ma mi avvicino molto raramente alla musica nei negozi. Non saprei farti un nome se non quello che ti ho appena detto.

Concerti?
E’ già ora, lo so, e sono anche contento di portare questo nuovo album in giro dal vivo. Credo che per l’Italia se ne parlerà nel 2000, ma potrebbe cambiare qualcosa…

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