5 dischi per capire la contaminazione tra piano ed elettronica
Ogni tanto si usa ancora il termine “crossover” per indicare quegli artisti e quegli album che fondono generi diversi - e vale anche per il piano: un campo che ha avuto un’enorme fortuna nella versione “solo” ma che si è spesso aperto a contaminazioni con il pop, il rock e l’elettronica.
Fabrizio Paterlini ha una formazione rock, ma ha trovato il successo con il piano solo: come il suo collega Ludovico Einaudi ha milioni di ascoltatori sulle piattaforme, molti di più dall’estero che in Italia. E per il nuovo disco ha scelto di abbandonare il suo campo classico: “Layers”, il suo nuovo album, unisce il piano con elettronica ed improvvisazione per quella che lui chiama “composizione verticale”, fatta di frasi e loop su cui si costruiscono melodie e percorsi musicali imprevisti - un salto rispetto alla composizione orizzontale classica, dove si prende un’idea e la si sviluppa in maniera lineare. Lo ha inciso con Marco Remondini (violoncello) e Stefano Zeni (violino), unendo al piano una digital audio workstation e gli archi, e mettendo i vari strati della composizione musicale in copertina, sotto forma di onda sonora.
Per raccontare cosa c’è dentro “Layers”, Paterlini ha scelto cinque dischi che ne rappresentano l’approccio, la metodologia, la sperimentazione e la misura dell’elettronica.
Miles Davis — “Bitches Brew”
"Non perché ci siano somiglianze sonore, quello è un disco sacro. Ma per l’approccio": Paterlini parte da “Bitches Brew” per spiegare come anche “Layers” sia nato dall’idea di riunire persone diverse in una stanza, senza sapere esattamente dove si sarebbe arrivati. Davis delegava, metteva insieme Joe Zawinul, John McLaughlin, Wayne Shorter Chick Corea: "gente che poi è diventata leggenda". Anche nel suo piccolo, Paterlini ha scelto di non scrivere tutte le parti, ma creare un contesto fertile e vedere cosa accade, collaborando con altri musicisti.
Un altro elemento è la logica del cut & paste: alcuni brani sono nati a distanza, con i musicisti che gli inviavano tracce da montare. "Sceglievo quale parte usare: è una tecnica che in quel disco è già tutta lì". L’eredità di “Bitches Brew”, insomma, è un modo di pensare al lavoro collettivo e alla forma aperta del brano.
Kiasmos — “Kiasmos”
I Kiasmos sono il progetto elettronico di Ólafur Arnalds, pianista islandese simbolo di un nuovo modo di intendere la “neoclassica”. Kiasmos è uno degli esempi migliori dell’incrocio tra texture ambient, ritmica minimale e linee melodiche, che crea un modello di equilibrio tra piano ed elettronica. Per Paterlini è come una delle prime vere reference sonore del suo nuovo lavoro."Gli strumenti sono quelli: il pianoforte c’è, ci sono i violini, c’è la base elettronica", spiega Paterlini. È una musica più vicina al flow da DJ set che alla composizione orizzontale del pianoforte classico, ma rappresenta la sintesi tra acustico ed elettronico che ha ispirato anche “Layers”.
Floating Points — “Crush”
Un’elettronica mai invasiva, mai chiassosa, che resta protagonista senza travolgere, fatta di synth modulari suonati con una sensibilità rara: ”Il modulare è perfetto per la sperimentazione, ma suonarlo così è difficilissimo”, dice Paterlini, che ritrova in Floating Points un approccio elegante, quasi cameristico, che ha provato a portare anche in “Layers”: un uso dell’elettronica come quarto strumento, "che parla quando gli altri non parlano" e che rimane sempre misurata, in dialogo intimo con le altre voci musicali.
Jon Hopkins — “Singularity”
“Singularity” è un disco che, per Paterlini, incarna l’idea di un’elettronica parte integrante del tutto, e non un elemento dominante. "Non è la gran cassa sparata a mille", dice. È un’elettronica che respira, stratificata, armonica, che si intreccia con pianoforte e texture acustiche. Hopkins diventa così un modello di equilibrio: una scrittura in cui il suono digitale è parte del racconto, lo accompagna. Elettronica presente ma mai invadente, forma aperta, gusto per le sfumature e per i dettagli che emergono più dall’intenzione che dal volume.
Nils Frahm — “All Melody”
Nils Frahm è il maestro della composizione verticale: partire da una frase di pianoforte, farla diventare base, poi aggiungere un secondo strumento che crea un nuovo strato, e poi un terzo. "Il brano si costruisce dal nulla e si sfalda nel nulla". Frahm, soprattutto in “All Melody”, apre porte verso un’altra dimensione con sequenze discrete, eleganti, su cui inserisce pianoforte, batteria, fiati, elettronica. Musica che cresce e si modifica in tempo reale, proprio come il metodo che Paterlini ha usato in “Layers” e porterà sul palco loop creati dal vivo, incastri che diventano brano, improvvisazione come parte strutturale. I dischi sono solo una fotografia, l’atto performativo è il vero luogo della sua musica.