L’ironia di De André tra storia, sesso e satira sociale

Il 10 ottobre 732, nella pianura di Poitiers, Carlo Martello fermava l’avanzata araba in Europa: una data spartiacque della storia medievale. Più di dodici secoli dopo, Fabrizio De André e Paolo Villaggio trasformano quell’eroe franco in un protagonista tragicomico, smascherando con sarcasmo la distanza tra gloria e miseria umana. “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers” del 1963 è una delle prime canzoni in cui emerge pienamente la cifra ironica e letteraria del cantautore genovese: un racconto in versi che gioca con la tradizione colta, la parodia popolare e la critica sociale. La ballata narra il ritorno vittorioso di Carlo Martello dalla battaglia di Poitiers. Dopo le fatiche della guerra, il re si abbandona ai piaceri della caccia e della carne: incontra una “donna bella e gentile”, una prostituta, e decide di giacere con lei.
Al mattino, scopre che l’amante gli ha rubato la borsa d’oro e, nella sua ipocrisia di sovrano cristiano, invoca il perdono divino per i peccati carnali, non per l’avidità o la violenza. L’ironia è pungente: il potente, simbolo di ordine e virtù, viene ridotto a una figura ridicola, preda delle stesse debolezze che condanna. De André, con la complicità di Villaggio, mette a nudo il moralismo borghese e la finta devozione dei potenti. Il testo mescola linguaggio aulico e parlato popolare, in un pastiche stilistico che anticipa la scrittura teatrale di “Il testamento di Tito” o “La guerra di Piero”. Dietro la comicità, il brano nasconde un ritratto acuto della società del benessere che stava nascendo nei primi anni Sessanta: il sesso mercificato, la religione ridotta a rituale ipocrita, la vittoria svuotata di senso. La canzone è anche una riflessione sulla fragilità dell’eroe: un Carlo Martello disumanizzato, goffo, che trova nel piacere effimero l’unica tregua alla noia del potere. Scritta da Fabrizio De André e Paolo Villaggio (all’epoca comico e paroliere), la canzone nasce nel clima di satira colta e irriverente del cabaret genovese.
Incisa nel 1963 e poi inclusa in “Volume I” del 1967, rappresenta un primo passo verso il “medioevo fantastico” che De André riprenderà in “La buona novella”: il passato come specchio del presente. Le versioni migliori? La versione originale del 1963: il timbro giovane di Faber e la chitarra limpida restituiscono la leggerezza del racconto; quella live del 1975 al Teatro Brancaccio: introduzione parlata ironica, più enfasi teatrale con che De André accentua la dimensione comica; quella live del 1991 con la PFM. Una resa orchestrale elegante, che esalta la musicalità barocca della melodia e ne amplifica la teatralità.