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Il primo grande manager rock, il Colonnello Parker

Un nuovo libro prova a riabilitare la controversa figura che definì la carriera del Re
Il primo grande manager rock, il Colonnello Parker

Per certi versi  è stato l’archetipo del manager rock: ricco di trovate di ingegno, capace di creare occasioni irripetibili. Ma anche il “cowboy cattivo” con il cappello nero, pronto a prendersi il ruolo del villain per proteggere il suo artista a ogni costo. Chi era davvero il colonnello Tom Parker? L’uomo che ha “inventato” Elvis Presley come fenomeno globale? Un genio del marketing e della gestione artistica o un manipolatore spietato che ha sfruttato fino all’ultimo respiro la sua creatura?
Peter Guralnick, tra i massimi studiosi della storia della musica americana e di Elvis, già autore della monumentale biografia in due volumi di Presley (“Last Train to Memphis” e “Careless Love”), ora si confronta direttamente con una delle figure più controverse del rock’n’roll nel nuovo “The Colonel and the King”, un libro che è in parte una riabilitazione.
“Scelse di indossare il cappello nero. Capiva il ruolo, l'importanza del racconto, e gli andava bene che Elvis indossasse il cappello bianco”, racconta Guralnick. In questa chiave, Parker diventa non solo un manager spietato, ma un uomo che costruisce un racconto, uno “storytelling” come si direbbe oggi: lui il cattivo, Presley il buono.

Il colpo a “Ed Sullivan” e il big bang del rock

Per capire il ruolo di Parker nella storia del rock, basta ricordare la storia della partecipazione di Elvis allo “Ed Sullivan Show” nel 1956. Convinse il conduttore più popolare d’America, inizialmente restio a ospitare l’artista in un momento in cui il rock ’n’ roll stava nascendo ma era controverso e invisp all’establishment del mondo dello spettacolo. Parker ideò una strategia di presenze e polemiche in altri programmi TV: Sullivan a quel punto, pur di averlo in trasmissione, arrivò a offrire un cachet record dollari per tre apparizioni.

La prima esibizione, il 9 settembre 1956, è di fatto la data di nascita del rock’n’roll per la cultura di massa, il momento in cui diventa mainstream. Bruce Springsteen lo ha definito il “big bang della cultura popolare americana” raccontando come, vedendo Presley in TV a 7 anni, decise di volere una chitarra e suonare. Quella sera, davanti a 60 milioni di spettatori, Elvis divenne l’icona che conosciamo: il giovane ribelle ballava in maniera disinibita, trasgredendo le rigide convenzioni sociali e il perbenismo dell'america degli anni '50. Grazie a un’idea del Colonnello, che seppe valorizzare il suo enorme talento.

L’uomo dietro il mito

Nato Andreas Cornelis van Kuijk nei Paesi Bassi nel 1909, Parker arrivò negli Stati Uniti come clandestino, con un passato controverso: si inventò un’identità americana e un titolo militare onorario ma inesistente. Proveniva dal mondo del circo e dei carnevali itineranti, dove aveva imparato l’arte di vendere spettacolo e creare attese. Tra i motivi che lo spinsero a non portare Presley in tour fuori dagli Stati Uniti c’era anche la paura che venisse scoperta la sua vera identità di immigrato.

Secondo Guralnick, era ossessionato dal controllo, perché credeva che Elvis ne avesse bisogno — che senza sarebbe andato fuori pista. Questo significava contratti blindati, un controllo totale delle apparizioni pubbliche e scelte spesso discutibili dal punto di vista artistico, come la lunga sequenza di film mediocri negli anni ’60: Parker lo tolse dalla TV e poi dalle esibizioni dal vivo al momento del massimo successo, pensando che il cinema fosse più controllabile e remunerativo, ma ebbe un impatto sulla produzione musicale e sulla reputazione di Presley, fino al suo spettacolare “comeback special" del ’68.
Eppure, nonostante le scelte discutibili, il rapporto fra i due fu di fiducia assoluta. In un telegramma dopo la firma con la RCA, Elvis scrisse: “Credimi quando ti dico che resterò con te nel bene e nel male e farò tutto il possibile per mantenere la tua fiducia in me… ti voglio bene come a un padre”.

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Il Parker della cultura popolare

Negli ultimi anni Parker è stato raccontato quasi sempre come un cattivo. Nel film “Elvis” di Baz Luhrmann (2022), interpretato da Tom Hanks, è lui il narratore e vero protagonista, con un Elvis fragile e manipolato, che compare anche in “Priscilla” di Sofia Coppola. Nella serie “Vinyl” di Scorsese e Jagger compare brevemente come manager spietato che tratta Elvis come un ragazzino e gli impedisce di seguire le sue passioni musicali. Il documentario “The Searcher” di Thom Zimny - regista di fiducia di Springsteen - mette in primo piano i suoi lati oscuri, dall’isolamento di Elvis alla scelta di impedirgli tour internazionali. Guralnick, invece, invita a leggere questa storia con più sfumature: “Il racconto è sempre stata troppo semplice: Elvis la vittima, Parker il cattivo. Ma la vita — e il business — raramente sono così netti”.

L’eredità

Parker definì il ruolo del manager musicale moderno: negoziatore implacabile, stratega dei media, inventore di un brand. “Fu un pioniere nel monetizzare la celebrità, molto prima che diventasse la norma”, scrive Guralnick.
Il cappello nero che indossava non era solo un simbolo di durezza, ma parte di una messinscena consapevole. E dietro quell’immagine di manipolatore c’era un uomo che — giusto o sbagliato che fosse — pensava di proteggere Elvis, anche a costo di imprigionarlo.
Secondo Guralnick si vedeva come il protettore. Anche quando era il secondino, forse è proprio questa la chiave per capire il colonnello Parker, il primo grande manager del rock.

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