Il nuovo album di Justin Bieber è un allarmante grido d’aiuto
«This is it, I can’t change, Lord knows I try», «È così, non posso cambiare, ma Dio sa che ci provo», canta Justin Bieber in “All I can take”, la canzone che apre il suo nuovo album “Swag”, uscito a sorpresa stanotte. Non lasciatevi ingannare dalle sonorità sbarazzine del pezzo, con quei synth morbidi e quel ritmo irresistibile. Il verso è di una profondità disarmante e forse non è un caso che l’ex bimbo prodigio del pop abbia scelto di aprire l’album proprio con questo brano. “Swag” arriva dopo un periodo a dir poco turbolento della vita e della carriera di Justin Bieber, tra crisi personali e artistiche, gossip e psicodrammi. Era stato lo stesso cantautore canadese qualche settimana fa a raccontare il disagio che stava vivendo, dopo essersi ritrovato - senza volerlo - coinvolto nello scandalo di Puff Daddy per via di quei vecchi video che lo ritraevano ancora adolescente insieme al rapper, produttore e imprenditore statunitense finito al centro di una tempesta mediatica negli Usa con l’accusa di aver gestito un’organizzazione criminale di vasta portata volta a soddisfare il suo bisogno di “gratificazione sessuale” (salvo essere giudicato come non colpevole per i due capi d'imputazione di traffico sessuale e per quello di associazione a delinquere), dopo le voci su un crollo psicologico e sulla crisi del matrimonio con Hailey Baldwin e dopo che in rete era diventato virale un video in cui si scagliava contro dei paparazzi. «È una vita che cerco di lavorare su me stesso e risolvere i miei problemi, come mi dice di fare la gente. L’effetto, però, è che divento ancora più stanco e arrabbiato. Più cerco di crescere, più mi concentro solo su me stesso. Solo Gesù mi fa ancora venire voglia di dedicarmi alle altre persone. Perché sinceramente io sono esausto dal pensare a me stesso ultimamente. Voi no?», aveva scritto Bieber. Forse ha capito che l’unico modo per uscire dall’impasse nel quale si era ficcato era tornare a far parlare la musica. E così finalmente è arrivato questo “Swag”, primo album in studio della voce di “Baby” in quattro anni, tanti quanti ne sono passati dal precedente “Justice”.
Uno specchio del disagio
“Swag” suona come la trasposizione in musica dell’ultimo periodo della vita di Justin Bieber, il bambino cresciuto troppo in fretta, che in una manciata di anni ha compiuto il ciclo di ascesa, caduta e redenzione che le star compiono in una carriera intera: l’exploit con “Baby”, una post-adolescenza passata all’ombra del lato oscuro del successo, il tentativo di rinascita con “Purpose”, nuove cadute, nuovi tentativi di riscattarsi. È un album disordinato e caotico, come del resto è stata disordinata e caotica la sua vita in questi anni e di conseguenza anche la sua carriera. Somiglia più a un mixtape che a un album vero e proprio: le tracce, 21 in tutto, pari a 54 minuti e 20 secondi di musica, si susseguono senza soluzione di continuità. A livello di suoni è un calderone che tiene dentro, o quantomeno ci prova, di tutto: dal pop all’r&b, dal rap più crudo alla trap più acida, passando per l’indie, il lo-fi, il soul e pure il gospel.
I testi sono di una disperazione disarmante
Presentato così sembra un disco perfetto per chillarsela, da ascoltare in un momento di relax. Non lo è: “Swag” suona come un grido d’aiuto. Quello di una popstar che, travolta dal successo, dieci anni fa in “Puropose” cantava come la sua vita fosse «un film che tutti stanno guardando», e che da allora non è mai realmente riuscita a riprendere il controllo di quella stessa vita. Non solo quel verso di “All I can take”, «this is it, I can’t change, Lord knows I try», di una disperazione disarmante. I testi delle canzoni di “Swag” sono pieni zeppi di riferimenti al disagio di Bieber. In “Therapy session” Justin parla delle sue difficoltà a vivere costantemente sotto le luci dei riflettori. In “Standing on business” si prova a minimizzare su quel video dello scorso mese, quando si rivolse ai paparazzi che erano pronti a fotografarlo fuori da un locale di Los Angeles urlando cose del tipo: «Money money money» («Soldi, soldi, soldi»), «Get out from here» («Andate via da qui»), E«You don’t care about people, human beings: only money» («Non ve ne importa niente delle persone, degli esseri umani, ma solo dei soldi»). Bieber si racconta in tutte le sue contraddizioni, le sue irrequietezze. In “Walking away” conferma la crisi attraversata negli scorsi mesi con la moglie Hailey: «And girl, we better stop before we say some shit / we been testing our patience / I think we better off if we just take a break», «Ragazza, è meglio fermarci prima di dire qualche stronzata / abbiamo messo a dura prova la nostra pazienza / penso che sarebbe meglio se ci prendessimo una pausa», canta. Ma poi nello stesso brano ci ripensa: «Baby, I ain't walking away / you were my diamond / gave you a ring / I made you a promise / I told you I'd change / it’s just human nature», «Baby, non me ne vado / eri il mio diamante / ti ho dato un anello / ti ho fatto una promessa / ti ho detto: “sarei cambiato” / è solo la natura umana».
I pezzi migliori
La sensazione è che il disco rappresenti un modo, da parte di Bieber, per provare a dare un segnale di vita. Negli Usa ne sono certi: l’album vero e proprio arriverà tra la fine di quest’anno e l’inizio del prossimo. E tuttavia qui e là qualche volta in “Swag” la popstar canadese - che ha lavorato, tra gli altri, con Mk.Gee, vero nome Michael Gordon, 27enne chitarrista, produttore e cantante che l’autorevole e prestigioso New York Times lo scorso anno ha soprannominato «an unlikely guitar God», «un improbabile Dio della chitarra» - riesce a tirare fuori dal marasma qualche buon pezzo. “Go baby”, ad esempio, riprende il mix tra funk, r&b e psichedelia di Steve Lacy, erede in qualche modo del suono di Prince (a cui sembra ispirarsi anche nell’interpretazione). “First place” tra vibes Anni ’90 e un piglio indie rock è un esperimento bizzarro, ma intrigante. “Devotion” è un pezzo soul, jazzato: Bieber lo ha inciso con Dijon, genietto della nuova black music statunitense già al fianco di Kanye West.
La ricerca di una redenzione
In “Soulful”, un dialogo con Druski, il comico e attore statunitense gli dice: «La tua pelle è bianca, ma la tua anima è nera». Non sembra solo un riferimento agli omaggi alla black music presenti nel disco: suona come un monito. L’anima di Justin sembra essere davvero nera, macchiata, sporcata. La speranza è che Bieber sia ancora in tempo per fare pace con sé stesso (e i suoi demoni). Il disco si chiude con un brano gospel intitolato “Forgiveness”, “Perdono”. A cantarlo, però, non è Justin, ma il pastore Marvin Winans: è un canto di ringraziamento a Cristo, «venuto dal cielo sulla terra per mostrare la via» e farsi carico dei «debiti peccaminosi». Un finale potentissimo.