Riportando tutto a casa: Bruce Springsteen si riprende San Siro

“Siete pronti?”, ripete Bruce Springsteen, per 4 volte: è appena salito sul palco, ha imbracciato la sua Telecaster. “Andiamo”, urla sempre in italiano - attaccando “No Surrender”.
Non si è mai pronti all’ondata emotiva e sonora che ti arriva addosso quando c’è la E Street Band a San Siro. Questo stadio è casa per Springsteen e per i suoi fan: è il luogo di alcuni dei concerti più leggendari della sua carriera, è un amplificatore di emozioni. Queste canzoni, questa band sembrano risuonare ancora più forte. Il pubblico è già in estasi, senza che sia ancora stata suonata una nota.
È l’ottava volta che Springsteen suona a San Siro, a 40 anni dal debutto del 1985 e a un anno dalle date del 2024 rimandate per un problema alla voce. In totale sono passati ben 9 anni dall'ultima volta, i due concerti del 2016: un’era geologica fa.
Così l’attacco con “No Surrender” e “My love will not let you down” è un 1-2 da pugile che ti stende: potresti andartene già a casa felice. Il bello della musica è che quando ti colpisce non fa male, per dirla con Bob Marley, un altro che aveva un legame con questo stadio.
Il ritorno di Little Steven
Sono le 19.56 quando Springsteen sale le scale che lo portano sul palco: è stato preceduto dai membri della E Street Band, al suo fianco c’è Little Steven - operato di appendicite una settimana fa, la sua presenza era incerta. È il ritorno nel ritorno, e Bruce lo chiama subito al microfono a cantare con sé, su “No Surrender”. Van Zandt per tutta la serata sfoggia la sua collezione di chitarre - ho contato almeno 3 Rickenbacker diverse, e due Telecaster, una con i colori ucraini, tra le altre, - e si prende qualche assolo; ma come sempre, gli assoli migliori li fa con la faccia, con le sue espressioni meravigliose, puntualmente riprese dai tre schermi che incorniciano il palco e che servono per raccontare il concerto - senza visual ed effetti speciali. Little Steven è una parte essenziale della liturgia della E Street Band, e non stupisce che abbia fatto di tutto per esserci, anche se inevitabilmente sembrava un po’ affaticato.
Rabbia e speranza
Quello che arriva a San Siro è un concerto diverso rispetto a quello di due anni fa, e anche a quello che sarebbe dovuto passare l’anno scorso. Non è più legato ai toni nostalgici di “Letter to You”, è un tour quasi rabbioso in certi momenti, nonostante prenda il titolo dalla speranza di “Land of Hope and Dreams”. Springsteen anticipa la canzone con l’ormai noto monologo in cui parla della deriva autoritaria del suo paese, dell’“arte del rock in tempi pericolosi”. Temi che tornano poco dopo in “Rainmaker”, canzone che racconta l’uomo che millanta di poter far piovere a comando, falsificando la realtà: ogni riferimento a un certo demagogo è puramente voluto.
Le canzoni più politiche e le relative intro sono tradotte e sottotitolate sugli schermi: quello attuale è uno spettacolo che vive molto di scrittura e molto meno di improvvisazione rispetto allo Springsteen di 9 anni fa: tant’è che la scaletta di questa sera è identica a quella di qualche giorno fa in Germania, compresa “I’m on Fire”, che teoricamente non era inclusa ma viene inserita. Questa scelta più teatrale non toglie potenza alle canzoni e al racconto, che dopo la parte politica infila una serie di classici: la potenza di “Atlantic City”, la speranza e la gioia da cantare in coro di “Promised Land” e “Hungry Heart”.
La liturgia del Boss
La voce di Bruce ogni tanto cala, inevitabilmente si muove di meno rispetto a una volta. Ma non è il punto. Quello che conta sono le emozioni, lo scambio con il pubblico, la liturgia: Bruce periodicamente scende verso le prime file, a cercare il contatto, a farsi toccare, in una sorta di benedizione.
La prevalenza del pubblico è adulta, ma ogni volta mi colpisce come ci sia gente di ogni età e come molti genitori portino i bambini, perché la passione per il Boss è qualcosa che si tramanda di generazione in generazione. Portare i figli a San Siro da Bruce è come portarli a San Pietro dal Papa - tant’è che sugli spalti e in platea si vede gente che arriva da ogni parte del mondo.
È una liturgia che ha momenti di commozione pura: “The River” inizia chitarra e voce e finisce chitarra e voce, con Bruce che canta in falsetto e poi dirige il coro dello stadio - è forse il momento più bello della serata. C’è la rabbia (ancora) di “Murder Incorporated” e poi ancora le riflessioni di “House of Thousand Guitars”, suonata in acustico. Poi la preghiera vera e propria di “My City of Ruins” - “This is a prayer for my country. Let’s pray”, dice Bruce prima di attaccarla.
Bruce è umano
La parte che segue è un crescendo di brani classici: “Because the Night” con Nils Lofgren protagonista sull’assolo, “The Rising” e “Badlands” cantate in coro, prima di “Thunder Road”, con Bruce che torna tra il pubblico.
Poi partono i bis, ed è un’altra botta: per “Born in the U.S.A.” vengono accese le luci dello stadio, che lo rimangono fino alla fine. È una sequenza con “Born to Run”, “Bobby Jean”, “Dancing in the Dark”, con la presentazione della E Street Band e l’inevitabile “10th Avenue Freeze-Out” che del gruppo racconta la storia - con tanto di ricordo di Clarence Clemons e Danny Federici, mostrati sullo schermo.
La band - che pure qua e là ha perso qualche colpo - va un po’ in calare sul finale. Pure lo stesso Bruce - impeccabile in camicia e cravatta nonostante la temperatura di San Siro - si toglie il gilet e si mostra sudatissimo e stanco. È umano, viene da pensare. Ma c’è ancora tempo per la festa con “Twist and Shout” - con le sue pantomime, i falsi finali e le ripartenze - e la chiusura della storia con “Chimes of Freedom” di Dylan, che Springsteen cantava sempre in un tour di 37 anni fa. Erano tempi diversi, ma oggi più che mai serve ricordare che le campane della libertà suonano e suoneranno per tutti.
È la benedizione finale, con Bruce che ricorda di portarsi a casa un po’ di quello che si è vissuto stasera.
Il miracolo si è compiuto un’altra volta. Vai a San Siro a vedere Springsteen e ti sembra che un mondo migliore sia possibile, che la musica abbia ancora il potere di trasformarti - almeno per qualche ora: con i tempi che corrono è comunque molto.
Bruce Springsteen è invecchiato - e si vede soprattutto alla fine, dal volto segnato dalla stanchezza. Ma a 75 anni ha ancora energia e carisma da vendere e delle storie universali da raccontare. È il grande saggio del rock: si può solo essere grati di averlo visto un’altra volta in questo luogo magico. Sapendo che giovedì si replica per l’ultima data del tour - con magari qualche sorpresa in scaletta che renderà tutto ancora più speciale.
SETLIST
No Surrender
My Love Will Not Let You Down
Land of Hope and Dreams
Death to My Hometown
Lonesome Day
Rainmaker
Atlantic City
The Promised Land
Hungry Heart
The River
Youngstown
Murder Incorporated
Long Walk Home
House of a Thousand Guitars
My City of Ruins
I'm on Fire
Because the Night - Cover di Patti Smith Group
Wrecking Ball
The Rising
Badlands
Thunder Road
BIS #1
Born in the U.S.A.
Born to Run
Bobby Jean
Dancing in the Dark
Tenth Avenue Freeze-Out
Twist and Shout - Cover di The Top Notes
Chimes of Freedom - Cover di Bob Dylan
This Land Is Your Land (registrata) - di Woody Guthrie