Coez: “I Fontaines D.C. hanno ispirato il mio nuovo album”

Coez fa un salto indietro per farne uno in avanti e osare ancora. Il cantautore, a quattro anni dal solista “Volare” e a due dal joint con Frah Quintale “Lovebars”, pubblica “1998”, un disco che attinge dalle sonorità e dall’immaginario degli anni '90, ispirandosi alla musica, alla esperienze di vita e ai racconti che hanno accompagnato la sua adolescenza. Un album pop, con un ritorno alla melodia, denso e granitico dal punto di vista sonoro su cui si inseriscono testi agitati da una lucente malinconia. Da novembre in poi lo presenterà dal vivo con un tour nei palazzetti. “1998”, per la sua lavorazione e per come verrà presentato sul palco, ha diversi elementi di novità per la carriera di Coez, che non ha mai voluto seguire i trend, ma in più occasioni li ha dettati.
Spesso si esalta la tua penna, ma in questo progetto c’è anche un importante lavoro musicale. Da dove sei partito?
Questo è il mio primo disco senza un vero produttore unico. Mi spiego: tutti i miei album hanno sempre avuto una figura che alla fine impacchettava tutto. A questo giro, dopo aver lavorato con diversi produttori sulle tracce del nuovo disco, ho pensato: chi potrebbe trovare l’amalgama? Alla fine ho deciso: sono talmente orgoglioso di questi suoni che sarò io quella figura. È la prima volta che succede, non avevo mai ricoperto questo ruolo da “direttore artistico”.
Le radici di questo suono corposo pop-rock anni ’90 da dove arrivano?
“Volare” e “Lovebars” con Frah Quintale, in cui ho dovuto trovare un equilibrio con il suo modo di fare musica, sono due dischi più vicini al mondo rap. Certo, è tutto filtrato alla mia maniera, ma senz’altro sono più rap. Finito il lavoro e il tour con Frah, ho sentito la voglia di tornare agli strumenti. Il concept è arrivato verso la fine della lavorazione del disco, mi sono reso conto che abbiamo attinto dagli anni ’90, da un suono che ho sempre amato, ma che stranamente non avevo ancora tirato fuori. Con il boom dell’indie, in realtà, ci siamo più legati alla canzone italiana anni ’80. Qui invece guardo all’estero e al decennio successivo.
Non c’è solo una novità sonora, ma anche di scrittura: hai collaborato con diversi autori.
Sì, non è stato un disco che ho lavorato completamente da solo. Mi piace definirlo “l’album corale di un solista”. Ci sono tante persone che mi hanno affiancato e sono entrate nel “mio studio mobile”, ho infatti preso varie location in diversi luoghi per scrivere il progetto. Ho messo in piedi dei veri team di scrittura che mi sono serviti e a cui hanno partecipato nomi come Dargen D'Amico, Davide Simonetta , Jacopo Ettorre e altri. La mia idea è sempre stata quella di fare dischi sempre diversi e in questo caso, anche dal punto di vista strutturale, non solo del sound, ho rispettato la missione. È stato un lavoro lungo durato più di un anno.
Sull’utilizzo degli autori c’è sempre un dibattito acceso. Il rischio, che alcuni sottolineano, è quello di creare pezzi Frankenstein. La tua esperienza?
Prendi “Dentro al fumo”: ho scritto fino a un certo punto, poi ho avuto un blocco. In passato mi sarei forzato per chiudere il pezzo. A questo giro no: l’ho portato a casa con Simonetta. C’è chi magari mi ha suggerito delle parole, chi delle melodie, ma alla fine ero sempre io ad avere l’ultima parola. Per me lavorare con gli autori è stato utilissimo, se si crea la giusta sinergia offrono un valore aggiunto e si può lavorare senza realizzare il pezzo Frankenstein. Io, per esempio, sono subito stato chiaro: facevo cappelli introduttivi, spiegavo dove volessi andare e che cosa fare con la canzone.
L’aspetto più sorprendente?
Che mi hanno aiutato di più nei pezzi intimi e personali che nei singoli. Con Ettorre e okgiorgio, con cui non avevo mai lavorato, per esempio abbiamo fatto “Mr. Nobody”, in cui racconto il mio percorso. Si tratta di una canzone che riprende un pezzo vecchio, “Figlio di nessuno”. Ho portato avanti, a livello narrativo, il racconto della mia storia, l’ho fatto con fierezza come a dire: “questo sono io e non me ne vergogno più”.
Questo disco è un concept come lo è stato “Faccio un casino”?
Sì, se intendi dal punto di vista estetico e di vibe. “Faccio un casino” è stato un album che ha fatto saltare i generi: ai rapper è venuta voglia di cantare e ai cantanti di rappare. “1998” è un altro tipo di progetto, ma ha senz’altro un concept estetico e di pasta sonora. Bisogna capire se c’è il contenitore giusto per un progetto del genere. Mi spiego: quando è esploso l’indie la mia musica è stata finalmente apprezzata perché si era creato il giusto contenitore. Ma io non facevo nulla di diverso rispetto al passato.
Come definiresti “1998”?
Un suicidio (ride, ndr). Il mercato sta andando da tutt’altra parte.
All’estero sonorità come quelle di "1998” in realtà funzionano. Il contenitore potrebbe arrivare anche qui in Italia e comunque il compito di un artista non è anche creare quel contenitore, senza seguire le correnti?
E lo dici a me? Sono d’accordo. Una band come i Fontaines D.C., che è stata tra le mie reference su questo progetto, o Yung Lean, con il suo rap-rock, dimostrano che qualche cosa sta effettivamente succedendo. I Fontaines sono forse la cosa più figa oggi in circolazione. Io ho sempre voluto fare esperienze differenti perché se si annoia il pubblico è un problema, ma se perde la voglia di osare l’artista è proprio finita.
Che cosa conta più di tutto?
La carriera. Guardarsi indietro, vedere i propri album diversi uno dall’altro. Per questo io voglio sempre fare cose che non ho mai fatto, senza perdere alcune delle mie peculiarità come per esempio la mia identità multipla.
Come sarà dal vivo questo album?
Lo abbiamo suonato in un piccolo club di Londra alla vecchia, senza sequenze, senza doppie voci. Diretto come il sound anni ’90. Sai che anche nei palazzetti vorrei portarlo così? Suonato, con la batteria vera e con la band. Io, cresciuto con il rap, non ho mai apprezzato totalmente il suono della batteria vera, mi è sempre piaciuto manipolarlo. E invece a sto giro credo proprio che faremo così: concerti tutti suonati praticamente in ogni aspetto, dall’inizio alla fine.
“1998” è un disco sulla perdita?
Sì, in alcuni frangenti è definitiva. Si parla anche di morte. La title track parla di una persona che ho perso nel modo più brutale. Mi ero ripromesso di non fare una canzone su questo avvenimento. Un po’ come quando dissi: “non farò una canzone su mia madre”, ma alla fine è uscita “E yo mamma”. Sono quei pezzi miei, personali, che non hanno bisogno di troppe spiegazioni….
La canzone “Estate 1998” è la tua “Cumuli” degli 883?
Sì, il tema è quello (la tossicodipendenza, ndr). Però io non spiego tutto, non entro in modo così profondo sulla questione, perché alla fine il protagonista di questa canzone è una persona che tutti almeno una volta nella vita potremmo aver incontrato, potremmo essere proprio noi quella persona. Il pezzo parla di chi se ne va. La mia canzone, al contrario di “Cumuli”, rimane “aperta”, non spiega nulla per filo e per segno. Per me le canzoni devono essere così.
“Roma di notte” con Franco126 e Tommaso Paradiso è una sorta di inno alla tua città?
In “Volare” mi sono riavvicinato ai rapper che ho sempre stimato, da Noyz Narcos a Gué. Qui mi sono riavvicinato ai cantautori e a quegli artisti con cui per diverso tempo siamo stati accomunati dall’etichetta “indie”. Quando sei troppo inserito in qualcosa, qualche cosa arriva a sfiancarti. Ora, però, finalmente di indie non parla più nessuno. E quindi siamo tornati a collaborare insieme.