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Il “Surrender” di Bono: “È ok sembrare ridicoli e vulnerabili”

Il film solista, il rapporto con gli U2 e con Springsteen, fede e attivismo: l’intervista di Rockol
Il “Surrender” di Bono: “È ok sembrare ridicoli e vulnerabili”

Dietro Bono, sullo sfondo, c’è il mare di Cannes: “Ho fatto ogni genere di cose in questa città e non mi sono mai sentito lontano da Dio, forse solo un paio di volte”, scherza il cantante degli U2. Lo abbiamo incontrato - via Zoom - in versione solista: la Costa Azzurra è una seconda casa per lui, e ha scelto il Festival del cinema per presentare “Stories of Surrender, il film di Andrew Dominik tratto dal tour dello show teatrale di due anni fa, che si concluse a Napoli: le immagini del Teatro San Carlo chiudono anche il racconto - e probabilmente una fase della carriera di Bono e degli U2.
Nei 20 minuti di conversazione non parliamo del nuovo album della band - che è attualmente in lavorazione e che aprirà la nuova "era"" del gruppo. Ma quando parli con Bono il tempo sembra rallentare, e lo staresti ad ascoltare per ore, su ogni argomento. Bono comincia raccontando dei suoi figli, la maggiore che fa l’attrice e il maggiore che ha appena visto dal vivo con la sua banda, gli Inhaler, suonare ad Amsterdam: “Hanno ancora lo spirito di una band di liceali, fanno tutto fastidiosamente senza sforzo. Io invece penso troppo alle cose che faccio” riflette.
È la caratteristica di questa fase di Bono: aprirsi, raccontare il dietro le quinte, senza paura di rendersi ridicoli o mostrarsi vulnerabili oltre lo stereotipo della rockstar.

“Stories of surrender” sembra una terapia. Perché hai deciso di raccontarti in questo modo?
È la domanda che mi sono fatto ed è quella che mi hanno posto i membri degli U2 e la mia famiglia. Perché mai raccontare tutto questo, in questo modo? Perché il rock and roll dipende molto dall’artificio. Dipende dall’atteggiamento, dallo swag: mettere in fuori il mento e alzare i pugni. Io sono sempre stato molto bravo in questo. Ma penso anche a ciò che ha reso unica la musica degli U2 nel corso degli anni, fin dall’inizi, era la sensazione che fosse giusto ammettere la nostra ingenuità.

Non hai avuto paura di aprirti troppo?
Sì, poteva anche essere un invito ai bulli della scuola: alcune persone ti danno un calcio quando sei per terra e ti mostri vulnerabile. Ma va bene così: è anche il mio modo di intendere l’arte.

Lo spettacolo e il libro iniziano con la tua operazione al cuore, il tuo momento di massima vulnerabilità, quando hai rischiato di morire….
John Lennon diceva che l’artista dovrebbe letteralmente aprire il suo torace e fare arte sanguinando sul pubblico. La mia definizione è che è ok essere ridicoli per la tua arte, o anche apparire ridicoli per la tua arte.

“Stories of Surrender” nasce come libro e spettacolo teatrale, prima ancora che un concerto. Ora è un film: sei diventato un attore, oltre che performer musicale?
Qua a Cannes giro con qualche foto in tasca, e se vedo qualche regista importante lo fermo…
No, seriamente, non sono un attore. Mentre filmavamo, Andrew Dominik, il regista, mi diceva sempre: “Smettila. Stai recitando. Smetti di recitare.” E io dicevo: “Cosa dovrei fare?”. Lui mi diceva: “Dovresti solo essere, così la camera può vedere chi sei, se stai mentendo.” Credi che se ne accorgano stando davanti a un pubblico?”. “Sì, lo penso. L’obiettivo va oltre.”
Mi ha spinto verso una performance veritiera, per esempio quando racconto la morte di mio padre.
I migliori attori non recitano: questa è la mia scoperta in “Stories of Surrender”. E io non potevo recitare, dovevo essere me stesso. Ed è per questo, credo, che forse ha funzionato.

Un precedente per questo tipo di spettacolo è “Springsteen on Broadway”, nato da un’autobiografia, diventato uno spettacolo-confessione e poi un film. È stato un modello per te?
Bruce Springsteen, è una fonte di ispirazione dal 1981, da quando lo vidi all’Hammersmith Palais di Londra e lui era con Pete Townshend degli Who. Lo incontrai, non potevo crederci: mio fratello mi aveva regalato i suoi album quando ero un adolescente.
È sempre stato un modello non nel senso del rock and roll, ma nel senso dell’opera: “Jungleland”, per me, è opera, non rock. Lui è italo-irlandese, e l’opera non è mai lontana, con quelle origini. Le storie di famiglia sono un’opera, non nel senso di soap opera, ma di una vera e propria. Il fatto che lui abbia avuto il coraggio di parlare di suo padre nei primi anni ’80 mi ha dato il coraggio di cantare di mio padre negli Zero e ora in questo periodo. Questo, e molte altre cose: il modo in cui si comporta, soprattutto.

Lui è un solista con una band. Tu sei il cantante di una band che fa un progetto solista. 
Springsteen ha detto una cosa divertente, però, sui gruppi musicali: “La democrazia serve per posti come l’Iraq. Ma non per un gruppo rock.” È sempre stupito dal fatto che noi quattro U2 ci dividiamo tutto in parti uguali e che siamo ancora molto democratici. Lui ha una band, ma c’è un solo Boss. Negli U2 ci sono quattro boss.

Cosa hanno detto gli altri U2 di questo film e del modo in cui hai riarrangiato le canzoni della band con Jacknife Lee?
A Larry piacciono solo i western… Adam… ero spaventato di chiederglielo, e lo sono ancora: sono più preoccupato delle loro recensioni che di quelle della stampa. Edge mi ha aiutato, è stato con me in alcuni degli arrangiamenti con Jacknife Lee, che è un genio.

Nel film The Edge non compare: in che modo ha contribuito? 
La cosa più straordinaria di Edge è che è l’unico a non pensare di essere il più influente chitarrista degli ultimi 30 anni. E quando parla di canzoni non pensa alla chitarra, pensa solo alla canzone: mi ha incoraggiato molto su questi arrangiamenti perché ha capito che davano una nuova prospettiva ai brani. Come “Desire”: “È come un arrangiamento africano”, mi ha detto, ra molto sorpreso e davvero davvero emozionato.

Qual è stato il ruolo di Andrew Dominik, oltre a spingerti a non recitare? Per esempio nello scegliere di girare il film in bianco e nero, che ha usato nei film su Nick Cave…
Sì, il bianco e nero è stata una sua idea. Abbiamo parlato molto dell’illuminazione, della fotografia, in questo caso con Erik Messerschmidt. Mi ha mandato un moodboard con immagini di Lenny Bruce con una sola luce che taglia l’oscurità.
Il rock and roll è come un rito al buio, è come andare in chiesa: noi cercavamo dei frammenti di luce nell’oscurità. Nel cinema è lo stesso: si va ad assistere a un rito al buio e si cerca la luce, e con la luce proiettata si raccontano storie.

“Stories of surrender” non è né un film-concerto classico, né un documentario. Come è nata questa forma di racconto?
Era la cosa su cui non eravamo d’accordo: semplicemente, lui voleva che fosse più un documentario e io volevo che fosse più una registrazione dello spettacolo teatrale.
Così il compromesso è stato quello di filmare in parte in giorni in cui il pubblico era presente e in altri a teatro vuoto, in cui lui poteva muovere le telecamere, cambiare l’illuminazione, filmarmi in modo più intimo, guardandomi dritto negli occhi.

Nel film dici che l’abbandonarsi, il fare pace con te stesso e con quello che ti circonda, è qualcosa di difficile. Hai capito cosa significa per te ora la parola “Surrender”?
In questo momento non è molto facile fare pace con il mondo. E per quanto riguarda il modo in cui sto facendo pace con me stesso, non procede molto bene…Mentre fare pace con Dio è qualcosa che per me è sempre stato facile. Mi sono sempre sentito amato per quello che sono, nella mia fede e nella mia religione.
 Non sono molto religioso nel senso ovvio del termine, ma non ho mai sentito di dover essere qualcun altro per pregare. Potevo sempre essere me stesso. Se ero fuori a bere o a mettermi nei guai, mi sentivo vicino a Dio come se fossi in una chiesa. Voglio dire, dietro di me ora c’è il mare di Cannes: ho dormito su quella spiaggia, ho fatto ogni genere di cose in questa città e non mi sono mai sentito lontano da Dio. Forse solo un paio di volte.

Però nel film parli di come c’è stato un momento in cui hai cercato Dio senza trovarlo.
Sì, dopo l’operazione ho sentito di aver perso l’aria. Ero terrorizzato perché non riuscivo a respirare. Sono un cantante, dipendo dall’aria. Quello è stato un momento importante di crisi.
Ho intitolato il libro “Surrender” non perché sapessi cosa volesse dire quella parola o come metterla in pratica, ma perché sapevo di dover affrontare questo tema.

Nell’ultima parte dello spettacolo e del film ti interroghi su quello che fai, sul tuo attivismo. Dopo aver scritto il libro e questo spettacolo hai più chiaro perché lo fai? 
La risposta sta nella somma di tutte le ragioni, sia quelle giuste sia quelle sbagliate. C’è una parte di me che cerca solo attenzioni e i riflettori. Ma c’è un’altra parte di me che vuole puntare i riflettori su persone che stanno facendo un lavoro migliore e su persone di cui dobbiamo ascoltare la storia. C’è un’altra parte di me che lo fa perché si chiede cos’altro potrei fare con questa fama. La fama è una cosa assurda, ma è una moneta di scambio: voglio spendere la mia con saggezza.

In “Pride” cambi il testo chiedendoti cosa si può ancora fare per l’amore. nell’ultima parte dello spettacolo parli di soprattutto di fede e speranza. Cosa significano per te ora queste parole?
Mi torna in mente questa cosa che diceva un politico di cui non mi ricordo il nome: se si ha la possibilità di sperare, è un dovere morale farlo - perché la maggior parte delle persone non ha la possibilità di sperare. Quindi, io spero.
Poi qualsiasi musicista deve avere fede. Ogni autore di canzoni ha fede perché salta da una nota a una che non conosce, cerca di creare una nuova melodia. Devi andare in posti che non sono mai stati raggiunti: per questo hai bisogno di fede e di amore.

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