Jovanotti e i vent’anni di “Buon sangue”: “Mi giocavo tutto”

«Un artista finito». Jovanotti era percepito così nel 2004, alla vigilia delle sessions che portarono alla genesi di “Buon sangue”. Gli esordi da teen idol con “Gimme five” e “Ciao mamma” erano ormai lontanissimi, così come gli anni da icona pop di “Ragazzo fortunato”, “Penso positivo” e “L’ombelico del mondo”. Lorenzo Cherubini non azzeccava una canzone, e un disco, da tempo. Troppo tempo. “Lorenzo 2002 - Il quinto mondo”, era stato un buon disco, ma non all’altezza dei precedenti “Lorenzo 1997 - L’albero” e “Lorenzo 1999 - Capo Horn”. “Roma - Collettivo Soleluna”, il primo e (finora) unico album del Collettivo Soleluna, da lui fondato, era stato più un divertissement tra amici che un’operazione discografica con tutti i crismi del caso. A dare un suono a quei sussurri che circolavano nell’ambiente discografico sulle sorti della carriera del cantautore ci pensò Michele Canova, il produttore più lanciato del momento, dietro ai successi di Tiziano Ferro, di cui aveva forgiato il sound. Jovanotti si rivolse a lui quando capì di aver bisogno di qualcuno che lo indirizzasse verso mondi ai quali da solo non riusciva (più) ad accedere: «Iniziai a lavorare a questo album partendo dal titolo e organizzando delle sessions in uno studio a Milano con Saturnino, Stefano Fontana, Riccardo Onori e Pinaxa (Pino Pischetola, ingegnere del suono, ndr) e dopo un paio di settimane mi fermai sentendo che mancava un sound nuovo, sebbene fossero nate bozze di canzoni promettenti (“Mi fido di te”, “Tanto”). Allora cercai Michele Canova, che aveva appena fatto il botto con l’album d’esordio di Tiziano Ferro», ricorda Jova, a vent’anni esatti dall’uscita di “Buon sangue”.
Il primo appuntamento con il produttore che avrebbe rilanciato la sua carriera, racconta Lorenzo Cherubini, fu «tragico»: «Mi disse: “Sei un artista finito”. La voce di “Penso positivo” incassò con sportività: «Io risposi: “Ottimo, così ricomincio, dammi una mano”. Ci chiudemmo nel suo soggiorno al piano terra, dove aveva montato una specie di studio e dopo un po’ sentii che stava arrivando quel sound che mi serviva per ritrovare il palco e le radio, per iniziare una nuova grande avventura». Le canzoni di “Buon sangue” nacquero così, dalla capacità - non scontata - di Jovanotti, a 38 anni, di lasciarsi prendere per mano e guidare: «Ad un certo punto mi sono accorto che da solo non ce l’avrei fatta e ho chiesto aiuto. E così è uscito forse il mio album più mio. Questo album mi ha ridato la voglia di sperimentare con l’hip hop, con un disco senza nessun punto di riferimento, quasi un’avventura che ha rischiato, a volte, di scapparmi di mano ma che poi, grazie a qualcuno, sono riuscito a riacciuffare», spiegava nelle interviste dell’epoca.
Ad anticipare l’uscita di “Buon sangue” ci pensò, ad aprile, il singolo “(Tanto)³”, destinato a diventare uno dei tormentoni di quell’estate, insieme a “Lascia che io sia” di Nek, “Lasciala andare” di Irene Grandi, “Come se non fosse stato mai amore” di Laura Pausini, “Marmellata #25” di Cesare Cremonini e “Estate” dei Negramaro. Per scrivere la canzone Jovanotti si ispirò a Petrarca: «Si tratta di un brano quasi di autoanalisi, anche se non mia. Ho letto una lettera che Petrarca aveva scritto ad un suo amico ed in realtà sembrava scritta proprio da me». Il testo somigliava quasi a un (nuovo) biglietto da visita: «Che stai facendo? Lavoro / che cosa cerchi? L’oro / hai uno scopo? Credo / dove ti trovi? In Italia / e come vivi? Suono / di dove sei? Toscano / qual è il tuo aspetto? / meno sereno di un tempo ma non per questo stanco». Il manifesto della maturità di Lorenzo Cherubini. L’operazione segnò un nuovo esordio per il cantautore, a diciassette anni da “Lorenzo for President”. E non a caso Jovanotti per lanciare l’album scelse un locale milanese, il Plastic, dove esordì nel 1987 come dj: «È stato il primo locale dove sono entrato arrivando a Milano, anche perché era uno di quelli di cui sentivo maggiormente parlare a Roma».
Tra pop, rap e world music, l’ex ragazzo fortunato del pop italiano ritrovò la vulcanicità che aveva caratterizzato lavori come “Lorenzo 1997 - L’albero” e “Lorenzo 1999 - Capo Horn”, ma declinata in chiave più intimista e riflessiva. Con pezzi come “Mi fido di te”, “Per me”, “La valigia” e “Coraggio”, Jovanotti mischiò voglia di divertirsi e di sporcarsi le mani con l’esistenzialismo di un uomo, un artista, prossimo ai quarant’anni e che di acqua sotto i ponti ne aveva già vista passare parecchia: «Ho capito che la vita è una lunga entusiasmante avventura, dove si cade e ci si rialza». “Buon sangue” rimise la palla al centro, ricaricando di linfa la penna di Jovanotti, che a partire da quel momento avrebbe cominciato a sfornare best-seller del pop italiano degli Anni Duemila e Duemiladieci come “Safari”, “Ora” e “Lorenzo 2015 CC”: «Con questo album mi giocavo tutto. Venivo da un periodo in cui si era un po’ interrotto il filo che negli Anni ’90 mi aveva reso la “novità’” della scena e si trattava di ritrovare la strada e non c’era niente di scontato. È un discone che amo, che mi ha fatto incontrare tantissima bella gente. Oggi a vent’anni dalla sua uscita mi emoziona ricordare il momento in cui guardai le facce di quelli che lo ascoltavano per la prima volta e dicevano: “Wow, che roba pazzesca”».