"Gli Afterhours hanno ritrovato la luce negli occhi"
“Fra piccole iene anche il sole sorge solo se conviene” è una delle frasi più potenti di un repertorio, quello degli Afterhours, che è potente di suo. 20 anni dopo è più attuale che mai. “Si è distrutta l’idea del gruppo, del sociale, del senso civico. È tutto un “io, io, io”, mi racconta Manuel Agnelli. Anche per questo ha senso rimettere in piedi una band, un gruppo di persone: gli After sono fermi da 6 anni, ma la formazione che andrà in tour questa estate da molto di più: è quella con Viti, Ciffo e Prette, che ha inciso “Ballate per piccole iene”, che viene ristampato il 6 giugno in una versione rimasterizzata, per Universal
Con Agnelli ci eravamo sentiti qualche settimana fa per parlare di “Carne fresca”, la sua rassegna di band rock giovani che ormai è diventato un appuntamento mensile a Germi, il suo locale milanese. La notizia del ritorno degli Afterhours era appena arrivata ed eccoci qua a raccontare il ritorno. Nel frattempo Agnelli non è mai fermo: un “no comment” su X Factor (che per ora ha confermato Giorgia alla conduzione e gli altri tre giudici, Achille Lauro, Jake La Furia e Paola Iezzi) e la ripresa del tour teatrale di “Lazarus” di David Bowie (domani a Modena, dal 28 a Milano, dal 5 giugno a Roma). Poi, dal 26 tornano gli Afterhours.
Gli Afterhours non suonano assieme da 6 anni. Come nasce questa reunion e come mai proprio con questa formazione, diversa dall’ultima?
In realtà non è partita come un’idea nostra, ma da Universal: visto che sono passati vent’anni da “Ballate per piccole iene”, ci hanno chiesto di ristampare il disco e di fare un po’ di promozione. Invece di fare una promozione blanda per un disco vecchio, abbiamo pensato: facciamoci una festa. E da lì è nato il tour.
Molti di quei pezzi non li suonavo da anni, alcuni – come "Il compleanno di Andrea" – non li avevamo mai suonati dal vivo. E siccome quel disco era stato registrato live in studio da una band che aveva proprio provato per farlo così, ho pensato fosse giusto rimettere insieme quella band, con quelle persone. Ci tenevo molto, anche dal punto di vista personale. Per chiudere dei cerchi. E quindi è diventata anche un’occasione per riallacciare o, in certi casi, ridefinire dei rapporti. Una bella occasione anche a livello umano.
Quella formazione, però, non aveva quasi mai suonato tutta insieme, giusto?
No, in realtà ha suonato: è una parte della formazione che ha fatto “Non è per sempre”, è la formazione che ha fatto “Quello che non c’è” e “Piccole iene” Quindi parliamo di quattro o cinque anni insieme. Solo che non suonavamo più dal 2006, quindi è passato davvero tanto tempo.
E qui arrivo all’altro motivo per cui l’ho voluta rimettere insieme: quando ho parlato con loro, ho visto la luce nei loro occhi. Quella luce lì, quella voglia, per me è la base di una band. Al di là dei progetti, del successo, della bravura tecnica. È l’energia che ti muove. E loro questa cosa ce l’hanno. Non volevano solo salire sul palco a fare i fighi, ma fare qualcosa che, per loro, ha un valore anche emotivo. E quando ho visto questa voglia, mi sono convinto definitivamente.
L’ultima formazione degli After non aveva più quella luce?
Erano musicisti eccellenti, forse i migliori tecnicamente con cui ho suonato. Ma il problema è che gli After erano diventati un brand, una mini-azienda. C’erano le canzoni, i musicisti bravissimi, i concerti che funzionavano… ma io dovevo infilare l’attività degli After tra mille impegni personali degli altri. Alcuni erano, di fatto, turnisti di lusso.
E a me, che considero questo progetto vitale, sentirlo un po’ sottovalutato aveva stancato. Ma quello che mi ha stancato davvero è stata la mancanza di necessità. Non è che non si divertissero o non portassero idee, anzi. Ma non era necessario. Una band deve esserlo. E questa, oggi, lo è. Forse tra un po' non lo sarà più, e dieci anni fa non lo era. Ma adesso sì.
Quindi questa reunion è legata solo a questo momento?
Non lo so. Qualsiasi previsione posso fare ora sarebbe legata solo all’interesse che c’è intorno alla band, e quindi poco nobile. Io vado avanti navigando a vista: mi interessa fare musica con una forte tensione emotiva, perché per me è vitale. E tutto dipenderà da quello: da quanta tensione riesco a trovare.
Non escludo che si faccia ancora qualcosa, ma non ti posso nemmeno dire che lo faremo. Di sicuro, le prevendite stanno andando in un modo mai visto prima. C’è un amore enorme intorno al nome Afterhours.
Secondo te dipende dall’assenza, dall’essere mancati per sei anni?
Più che “assenza”, io parlerei di “amore”. Ho fatto un disco solista che ha avuto ottimi riscontri, ho vinto premi, ho fatto tre tour in crescendo, mi sono divertito. C’era tensione emotiva, era un periodo vitale. Però, a livello di numeri, quando c’è scritto Afterhours il pubblico quadruplica. Ed è curioso, perché anche nei miei tour facevo parecchi pezzi degli After. Ma evidentemente quel nome lì, anche se la band è cambiata mille volte, ha un significato profondo. I numeri che stiamo facendo ora sono mostruosi, e questa formazione non suonava insieme da vent’anni.
Pensi che questa reunion possa portare nuova musica?
Non lo so, è difficile. Penso che una parte del pubblico degli After sia nuova – altrimenti non faremmo questi numeri. E questo pubblico ci ha conosciuto attraverso i “classici”, e quelli vuole sentire.
Con “Padania” e soprattutto con “Folfiri o Folfox” avevamo già provato a proporre cose nuove. “Folfiri” è pure finito primo in classifica. Quindi la sete di novità c’era. Ma la gente vuole “Male di miele”,e va benissimo, ne sono orgoglioso.
Stai lavorando ad altri progetti musicali?
Per chi la musica la vuole vivere – e non solo esercitare come professione – è chiaro che lo sguardo va in avanti. Io ho un sacco di materiale pronto. Devo solo decidere come chiamarlo. Se lo chiamo Afterhours, sembra strano perché magari l’ho suonato tutto io. Ma allo stesso tempo è strano che, dopo tutti questi anni, io non possa far uscire un disco e chiamarlo Afterhours.
Sono pensieri che al momento non voglio affrontare. Ora abbiamo davanti un tour che dev’essere, prima di tutto, liberatorio, divertente, salvifico. Non progettuale.
Torniamo a “Ballate per piccole iene”. Arrivava dopo “Quello che non c’è”, il vostro capolavoro. Tu come lo giudichi oggi?
È un disco molto a fuoco, e di questo bisogna ringraziare Greg Dulli, che lo produsse. Ha dato coerenza ai pezzi, ha costruito un suono unitario dall’inizio alla fine. Gli After sono sempre stati eclettici, un po’ per la varietà dei musicisti, un po’ per i miei gusti. Ma “Ballate” e “Quello che non c’è” sono forse i nostri dischi più compatti.
Poi, è sempre il pubblico a decidere cosa vale. E i pezzi di “Ballate”, forse più ancora di “Quello che non c’è”, sono diventati la colonna vertebrale dei nostri live. “La vedova bianca”, “Ballata per la mia piccola iena”, “La sottile linea bianca” sono entrati nell’immaginario del nostro pubblico.
“Quello che non c’è” è un disco che mi ha salvato la vita in un momento in cui avevo perso ogni riferimento. Ma dal punto di vista live, “Ballate” ha più peso. Non so fare una gara. Ma sì, il pubblico alla fine sceglie “Ballata per la mia piccola iena”.
“Fra piccole iene anche il sole sorge solo se conviene” è una delle frasi più forti che hai scritto. È ancora attuale?
Assolutamente sì. Negli ultimi anni ho vissuto situazioni di opportunismo assurde. Non che io sia un santo, ma oggi questo atteggiamento è dilagante. Si è distrutta l’idea del gruppo, del sociale, del senso civico. È tutto un “io, io, io”. Questa divisione tra di noi non è casuale: più siamo divisi, meno possiamo essere significativi, creare pressione, cambiare le cose.
C’è un “si salvi chi può” psicologico che è diventato stile di vita. E in Italia attecchisce benissimo. Non ci fidiamo di nessuno, pensiamo solo al nostro benessere. Quando ho scritto quella frase, probabilmente cominciavo a vedere tutto questo.
Che giudizio dai oggi della versione inglese del disco che uscì poco dopo e del tour all’estero?
È stata un’esperienza meravigliosa. Venne pubblicato da One Little Indian, l’etichetta di Bjork: abbiamo fatto tour mondiali per cinque o sei anni. Il più bello, nel 2006: 150 date tra Italia, Stati Uniti, UK, Germania, Francia, Spagna. Abbiamo continuato a suonare fino al 2012 all’estero. Ci ha salvato come band, ci ha aperto nuovi orizzonti e ci ha fatto crescere come persone.
Ma è stato un progetto, e lì sono venuti fuori dei limiti: tradurre le canzoni in un’altra lingua non è semplice. Davey Ray Moor mi ha aiutato molto, meno bene è andata con Greg a New Orleans, che voleva che cantassi con l’accento del sud degli Stati Uniti: come chiedere a un tedesco di cantare in napoletano.
Il tour italiano con le canzoni in inglese però non fu ben accolto, e ci fu anche una scazzotatta con un fan che hai raccontato qualche anno fa…
Sì, ma era grottesco. Avevamo fatto 55 date in italiano prima, poi siamo andati in tour negli Stati Uniti. Al ritorno, in scaletta avevamo 7-8 pezzi in inglese su 22. Un terzo, insomma, e la gente era libera di non venire.
Invece, in certi concerti c’è stata contestazione, gente che cantava in italiano sopra i pezzi. Non ho mai capito quella reazione. Forse era la paura di perderci, o forse solo provincialismo. La mia generazione ha dovuto fare i conti con un provincialismo crudele. Ma tutto sommato, è andata bene così.
Avete rimasterizzato l’album ma non aggiunto outtake o inediti. Scelta precisa?
Sì. Volevamo ripresentare “Ballate” com’era, legato a quel periodo e a quella formazione. Però, nel riversare i nastri in digitale – per paura che si rovinassero – ho trovato un sacco di materiale.
Potenzialmente si potrebbe fare un disco di outtake, anche interessante. Ma non voglio farlo adesso. L’idea di inserire “il pezzo nuovo” per vendere mi sembra… non so… Dalle outtake potrebbe uscire un disco vero, ma sono cose da finire. Molti pezzi non hanno testo, solo linee melodiche, altri non sono nemmeno mixati. Vedremo se varrà la pena.