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Boosta e il suo amore totale per la musica

Dal nuovo album solista ai Subsonica fino alle collaborazioni con i Depeche Mode: l’intervista.
Boosta e il suo amore totale per la musica

Un pianoforte a coda e una postazione elettronica. Questi i riferimenti strumentali di cui Boosta si serve per esprimere nel nuovo album “Soloist”, e sul palco, le diverse tonalità di colore e le sfumature timbriche che caratterizzano la sua nuova musica. Il progetto verrà presentato con un tour ad hoc: qui tutte le date. Terminato a fine marzo la tournée dei Subsonica, il musicista e compositore si presenta nuovamente davanti al pubblico in una chiave più intima e personale, aggiungendo un nuovo capitolo al suo percorso artistico e riaffermando il suo ruolo di innovatore e narratore sonoro. A guidarlo, ancora una volta, un amore totale per la musica.

Affronti il piano mischiando tradizione e avanguardia. Che cosa rappresenta per te questo strumento?
Coltivo un grande amore per la musica. La musica ci permette di vivere in modo migliore. Dopo trent’anni di carriera, l’unico modo per restare dentro questo mondo, per me, è avere curiosità. Mi sono ri-scritto al Conservatorio perché ho voglia di studiare ancora, perché ti accorgi, più vai avanti, che c’è sempre più bisogno di mettere acqua nel lago della creatività. Inoltre io voglio sperimentare: il disco “Soloist” è un’altra tappa di questo percorso. Per me rappresenta una calligrafia, un tratto, come nella scrittura a mano.

Ovvero?
Noi tutti da quando siamo bambini, crescendo, cambiamo costantemente la calligrafia. Anche la musica, se si sperimenta, è così. Oggi il mio tratto, mutato nel tempo, è “Soloist”. Mi rappresenta. Per me è uno spazio libero in cui ogni elemento del pianoforte crea un viaggio. Nel momento in cui mi sono iscritto alla scuola di musica elettronica del Conservatorio, anche solo studiando la storia della musica elettronica, ci si rende conto dell’importanza del pionierismo. Nel ‘900 quando uscivano e si scoprivano letteralmente suoni nuovi, c’era uno stupore fanciullesco magico, che ora non c’è più, ma la cui sensazione è giusto inseguire.

Insegui emozioni?
Certo. Fare musica non è una questione di onanismo per dire “guarda quanto sono figo”. Io voglio abbracciare emozioni, ascoltando gli altri e riascoltando me.

È curioso il tuo ritorno al Conservatorio. Che cosa significa tornare a studiare dopo una carriera come la tua?
Il momento più umiliante della mia vita da studente e da musicista è stato andare alla scuola di musica elettronica dicendo “va beh, ma io già faccio musica elettronica”, e scoprire che una marea di cose di elettricità e fisica, per esempio, non le sapevo.  Accorgersi di non sapere un cazzo è stato tremendo.

Abbassa l’ego?
Lo abbassa molto. L’età diluisce l’ego, è vero, a vent’anni ero bello spaccone, ma il segreto per tenerlo sempre a bada è mettere in dubbio tutto quello che fai, e quindi quello che sei. Mettersi in dubbio è faticoso. Lo è stato anche per me, quando mi sono rimesso a studiare.

Che cosa ti ha spinto a partecipare al San Marino Song Contest 2025?
Il desiderio di far sentire la mia musica solista. Le opportunità vanno colte. Ho smesso di essere un Mujaheddin da tanti anni, oggi sono un laico. Io lì mi sono divertito, ho mantenuto intatta l’attitudine che abbiamo con i Subsonica, ovvero quella di essere un’astronave aliena che si cala nelle situazioni e poi vola via.

È lo stesso approccio che hai avuto quando hai partecipato ad Amici come giudice?
Sì. Ho fatto il mio e me ne sono venuto via. A San Marino non sono andato per la gara, ma per far dire a chi mi ha ascoltato: “bella quella canzone, c’è anche un tour, potrei andare a una data per sentirne di più”. Io davvero non vedo l’ora di tornare sul palco con questo progetto.

Non sarai “difeso” dalla band.
Per questo sarà interessante. Per me sarà come tornare agli inizi. E poi a me interessa il silenzio, che ho imparato ad apprezzare sempre di più suonando in giro con il piano. Quando suonai a Napoli, un ragazzo metallaro, che in silenzio prestò attenzione ai brani, a fine live mi abbracciò e mi disse: “grazie perché la tua musica mi ha ricordato mio padre”. Io faccio musica esattamente per questo. I miei concerti sono le colonne sonore del silenzio di chi li ascolta. Il mio non è un concerto-esposizione.

Che cosa è?
Uno strumento per viaggiare. E questa cosa funziona se catturi il silenzio, per l’appunto. Se quando finisce il live, prima dell’applauso finale, ci sono dei secondi di silenzio, vuol dire che si è fatto davvero centro.

Questo è uno dei momenti più floridi per i Subsonica e per tutti voi come singoli artisti?
È un momento di grande benessere. Solitamente dopo un disco dei Subsonica, e il conseguente tour, ci mettevamo a lavorare sui nostri lavori solisti. Questa volta invece abbiamo sia lavorato “dentro” la band che “fuori” la band, in contemporanea. Ed è stato bello non avere cesure nette tra un mondo e l’altro. Non poteva essere altrimenti: nel 2026 i Subsonica compiranno trent’anni ed è un traguardo, non comune, che è giusto in qualche modo sottolineare e celebrare.

La vostra forza passa anche per l’identità dei singoli?
Senz’altro. Ognuno di noi ha delle caratteristiche ben definite, ama esplorare. E tutti mettiamo le nostre conoscenze e i nostri viaggi sonori anche al servizio del gruppo.

Sei costantemente impegnato anche con dei laboratori musicali per i più piccoli, attivati all’interno di diversi ospedali d’Italia, con l’obiettivo di dare alla luce una scuola di musica elettronica per l’infanzia. La musica è terapeutica?
I laboratori negli ospedali sono un regalo che mi fanno gli ospedali stessi. La Scuola di Musica Elettronica per l’infanzia è un progetto concreto che vorrei far partire nel 2026 in modo permanente: attraverso l’elettronica si porta avanti la cultura dell’ascolto. E saper ascoltare è un valore, oggi più che mai che si parla tanto, ma si ascolta pochissimo. L’elettronica inoltre permette ai bambini di generare subito suoni attraverso, banalmente, dei pulsanti, senza passare per degli strumenti. Vorrei che la mia eredità fosse proprio questa scuola. Una scuola in cui l’amore per il suono sì, può far vivere meglio.

Tu in passato hai collaborato con Placebo, Depeche Mode, Beastie Boys e altri giganti. Come siete entrati in contatto?
Negli anni 2000 mettevo moltissimi dischi, era il periodo dell’elettronica da ballo. Claudio Coccoluto aveva un programma di culto, il sabato sera in radio, che mappava come un radar gli spostamenti di tutti noi dj che suonavamo nei locali. Attraverso dei messaggi in radio intervenivamo in diretta, raccontavamo dove ci trovavamo e lui ci rispondeva. Era molto divertente. E sempre in quel periodo si potevano fare tanti e diversi remix, e mi è capitato di farli per band incredibili. Andrew Fletcher dei Depeche Mode l’ho conosciuto proprio perché abbiamo fatto tantissime serate insieme come dj. Ricordo che per loro feci un remix di “John the Revelator”. Mi arrivarono anche dei pezzi, per realizzare dei remix, dei Mötley Crüe, una delle mie band preferite.

Fino a che punto ci si può spingere?
Ci deve essere una visione creativa, un’idea alla base. Quando sento un pezzo remixato dei Cure in versione lounge-aperitivo, ecco, in quel caso, mi sento male.

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