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Palalido di Milano, 1976: processo a Venditti. Il video esclusivo

Dagli archivi dell'Associazione di promozione sociale Alberto Grifi
Palalido di Milano, 1976: processo a Venditti. Il video esclusivo

C’è stato un periodo in cui fare il cantautore significava stare in trincea. Non era innocuo chi stava sul palco, e non lo era nemmeno il pubblico sotto. Pur stando spesso dalla stessa parte - quella dei giovani che sognavano un mondo nuovo e organizzavano il loro assalto al cielo - le contestazioni abbondavano, perfino spaventavano. È ben noto il processo a Francesco De Gregori al Palalido di Milano, 2 aprile 1976, un trauma che lo allontanò per anni dalle scene, ma mai si ricorda il Palalido di Antonello Venditti, accompagnato da Ivan Graziani e affrontato il 30 novembre dello stesso anno, quindi dopo il fattaccio De Gregori, nonostante il fattaccio di De Gregori.

Venditti oggi compie 76 anni e gli facciamo gli auguri mostrando finalmente alcune immagini in movimento di ciò che accadde a quel concerto, contestato dagli Autoriduttori. Sono estratte da un filmato che dura ore, gentilmente concesso dall’Associazione di promozione sociale Alberto Grifi (www.albertogrifi.com), che cataloga, digitalizza e tutela il patrimonio artistico del nostro regista più visionario e sperimentale, dagli anni ’50 ai primi 2000. Il documento è infatti doppiamente eccezionale, perché a girarlo in presa diretta, coadiuvato da Claudio Caligari (“Amore tossico”, “L’odore della notte”, “Non essere cattivo”) e Franco Barbero, è proprio Alberto Grifi, il cineasta artigiano, indipendente fino all’osso, che riprendeva la vita, autore del film-culto “Anna”, di “La verifica incerta” (che ispirò “Blob”) e di molto altro. In archivio, ad esempio, sono custodite registrazioni dal vivo di Parco Lambro (Don Cherry, Eugenio Finardi, Area, Napoli Centrale), il Concerto Dodi Moscati al Folk Studio, le musiche di Paolo Fresu per il film “In viaggio con Patrizia”, tanto materiale in attesa di fondi per essere restaurato.

Il concerto al Palalido lo facciamo raccontare direttamente da Antonello Venditti, che gli dedica un paio di capitoli nel suo ultimo libro “Fuori fuoco” (edito da Rizzoli - la copertina a fine pagina):

«Ero preparato ad essere attaccato. Non avevano risparmiato Francesco, né De André, i Led Zeppelin né Lou Reed, figurarsi me, che ero ancora più commerciale. Chiunque incontrassi, sconsigliava di presentarmi dal vivo al Palalido. «Ti faranno a pezzi» dicevano all’unanimità. «Se accetti, sei finito», «Fingi di stare male e togliti da quest’impiccio». Mantenevo una faccia disinvolta, fuori fuoco bruciavo. Avevo paura? Moltissima. Mio figlio era in culla e gli chiedevo: «Ci devo andare o no?». Lui rideva tutto. Con le labbra, con gli occhi, con i pugnetti, e con l’irragionevole fiducia che hanno i neonati.  Rideva e mi rispondevo: «Significa che ce devo annà». Per inciso, con me stesso parlo in romano. Sarei andato per me, per lui, per dimostrare coraggio e, forse, presunzione, spezzando una specie di maleficio che rischiava di azzittirci tutti e ci aveva già abbastanza atterrito.

Il concerto era organizzato dalla radio libera Canale 96, vicina ad Avanguardia Operaia. Andavo per loro, gli stessi che mi avrebbero contestato chiedendo “la verifica” delle mie posizioni.700 lire invece che 1500! Ci siamo autoridotti per protestare contro il costo del biglietto, troppo alto per i giovani proletari, e contro i contenuti che Venditti porta avanti nelle canzoni!” urla la ragazza con il megafono, sotto la pioggia battente. Un suo compagno gracchia la stessa tiritera come un corvo. Viene giù malaugurio a dirotto. La tempesta mi aspetta dentro.

Ivan Graziani, con me dal vivo, prende coraggio e con la chitarra acustica fa “Il campo della fiera”. Volano oggetti vari sul palco. Nessun occhio di riguardo per il mio chitarrista.

Salgono una decina di persone, ognuna si appropria del microfono: «Invito il camerata Venditti a non suonare» dice un tizio. Un altro gli strappa il microfono: «Venditti ha composto l’inno della Roma. Questo basti a capire come si comporta». Un altro lo sposta di peso: «Compagni! Leggo tre comunicati!».

Io lascio fare. Mi siedo al pianoforte, e piovono fischi e monetine. Attacco “Attila e la stella”, e piovono applausi. Difficile interpretare questo pubblico. Continuo con “Lo stambecco ferito”, spiegando che lo stambecco rappresenta l’industriale, il nemico di classe, che ha le tazze da cesso in fine porcellana, il figlio al college inglese e quaranta miliardi nascosti nel tetto, mentre il bracconiere è colui che gli vuole sparare e lo mira, ma per pietà non riesce a premere il grilletto. Alla fine, è il cacciatore di frodo a morire ammazzato, per mano della polizia. Faccio il brano, che non si può proprio definire da camerata, e partono le grida: «Borghese! Borghese!».

Fischiano loro e fischiano gli amplificatori rotti. Un gran casino. Un ragazzo requisisce il microfono: «La cultura deve partire dai giovani di quartiere, non dai cantautori di merda che si definiscono parte del movimento!». E ancora: «Venditti indossa la maschera del compagno». Ascolto, poi rispondo: «Il linguaggio è diventato sterile, bisognerebbe solo suonare. Vado avanti e scusate il suono, accettatelo per quello che è». Applausi.

Parte una nuova staffetta al microfono. «Compagni, qui si fa il concerto. E poi si discuterà la posizione politica di Venditti». A questo punto, esce tutta la mia romanità, lato coatto compreso, quella del “capisco e provvedo”, schietta, che non ha controbattuta uguale. Il romano nun ce sta. Con una parola t’ammazza perché tutti capiscono la sua lingua ma solo lui sa usarla. Rispondo lapidario: «Ragazzi, forse ve siete sbagliati. Non sono venuto per subire un processo. Io rispetto le minoranze, ma sono per la maggioranza, perché so’ un democratico». Vengo interrotto ancora. Allora decido: «Il concerto è finito, fate quello che ve pare».

Uno di Canale 96 corre ai ripari. Al microfono insiste: «Antonello! Ti chiedo di cantare. Per favore Ivan, puoi fermare quella chitarra?». Perché in tutto questo, Graziani continuava a fare note per creare un sottofondo. Era spaventato, ma siccome sembrava di stare in un film, e siccome lui non sapeva mai staccare le dita dalle corde, stava improvvisando una colonna sonora surrealista.

Il tipo di Canale 96 riprende: «Non ci interessa dividere quattromila persone per via di altre cento. L’obiettivo di noi giovani è avere un seguito di massa. Alzi la mano chi vuole che Venditti canti… e poi ne discuta». Non è proprio concepibile cantare e basta, vado sottoposto ad esami endoscopici. Ma io sono romano, e sono Toshiro. Replico, rivendico il diritto parlare di quello che voglio, anche della Roma, se fa parte della mia vita.

Metto le dita sul piano e inizio “Maria Maddalena”, interrotta da un botto. Qualcuno ha staccato i cavi, altri invadono il palco. Nel caos, un ragazzo grida: «C’è un medico in sala?».

Uno di quelli che hanno invaso il palco è una maschera di sangue. Mi passa accanto impiastrato di rosso, non so se sia rimasto ferito nella rissa, se si sia spaccato la testa contro il pianoforte nel tentativo di difendermi o di acchiapparmi. Lo tirano giù e lo portano via.

Accettando quel concerto, mi prestai a far scoppiare le mie contraddizioni, e soprattutto le contraddizioni del movimento. Litigavano fra loro, fra i circoli giovanili, io ero il pretesto. Capivo le loro istanze, erano le stesse mie, ma non condividevo i modi. Si stavano avvitando sui concetti e sulle parole. Chiedevano libertà e intanto la soffocavano. Li impressionava di più la maschera del compagno Venditti che la maschera di sangue di un coetaneo, e questo mi allarmò, perché stavano perdendo di vista le persone.

In “Lo stambecco ferito” il mio bracconiere, con tutte le sue ragioni per sparare, aveva risparmiato l’industriale. Nella realtà temevo non sarebbe andata così. Qualcuno avrebbe premuto il grilletto. Provavo un dispiacere doppio: per la violenza in serbo e per lo spreco di bellezza. Non avevo mai visto, e non l’ho più visto da allora, un simile interesse per la cosa comune, una simile fiducia nella forza collettiva, idee a cascata, dagli “sconvegni” sull’antipsichiatria alle trasmissioni per la liberazione omosessuale, radio libere, controinformazione, tanta voglia di parlare, di condividere, di non lasciare nessuno indietro.

Sono stati anni prodigiosi e pesanti. Si pensa al cantautore come ad un menestrello mite e acclamato, e non è stato così. Quel giorno ho cantato, perché a fronte di un centinaio di contestatori, altre migliaia di ragazzi stavano lì per ascoltarmi. Non mi interessava il successo, ma il consenso sì. Significava coscienza di muoversi nella stessa direzione, per lo stesso obiettivo. Noi cantautori volevamo mostrare una via democratica per raggiungere gli stessi traguardi, forse per questo, da più parti, venivamo ostacolati.

E non era finita lì. Mentre me ne stavo andando dal Palalido, travolto, sconvolto, ma anche sollevato per come mi ero difeso, chi è che vedo? Lucio Dalla. Lo vedo e gli vomito sulla spalla. Lui non aveva assistito all’antefatto, era venuto da me tutto contento per l’esibizione, e io gli ho vomitato sulla spalla per la tensione accumulata. Non molto tempo dopo, mentre suonava al Castello Sforzesco, sul suo palco non avrebbero tirato monetine ma una bomba molotov».

 

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