Paolo Benvegnù: "In questo paese chi fa ricerca non viene visto"
In occasione della Milano Music Week, per il terzo anno consecutivo, Rockol ha organizzato degli incontri dedicati alla salute mentale, tema sempre più centrale per l’industria musicale. Il primo ospite,, è stato il cantautore Paolo Benvegnù.
Che cos'è la salute mentale per te e cos'è, invece, nella musica?
Lo scibile è amplissimo. Cos'è la salute mentale in questo momento storico? In tutta franchezza non riesco ad avere una definizione che sia soddisfacente. Ma devo dire, avendo più di mezzo secolo sulle spalle, che prima era tutto molto più sottaciuto e la salute mentale era un tema che si trattava ancora meno rispetto a ora. Cos'è la salute mentale? Non saprei. In quello che è il mio sguardo, la mia ottica sugli esseri umani, la salute mentale è tutto ciò che non dà danno agli altri. Ma è riduttivo. In questo momento storico la salute mentale è uscire dall’io ed entrare nel noi. Non è così semplice da fare.
Cosa ti ricordi delle tue origini musicali, delle fatiche che hai avuto nel gestirti in quel periodo in cui queste cose non erano un tema di discussione? Quando hai iniziato la salute mentale, semplicemente, non era un tema: era una cosa che non si diceva, non si faceva. L'unica logica nell'industria musicale era mettere giù la testa e lavorare.
Per diventare più sano non ho fatto nient'altro che scrivere canzoni, raggiungiungere un certo equilibrio - lungi da essere risolto ancora oggi - grazie alla ricreazione, che va intesa come "mondo creato" da ricreare attraverso la propria sensibilità. È anche un gioco di sparizione rispetto alla realtà, che azzanna, specialmente quando è piccola, stretta. Nel mio caso, quindi, la salute mentale è stato scrivere canzoni e non potevo farne a meno, come tuttora. È l'unica maniera che mi permette di entrare in un mondo armonico - non parlo di armonia musicale - tra il mio piccolo mare e il mare che c'è all'esterno...All'inizio degli anni 90, quando ho incominciato, il tema della salute mentale non c'era. Si era tenuti a pensare che chi suonava era più un freak a cui piace bere la birra, andare in motocicletta e cercare di rimorchiare ragazzi o ragazze, a seconda della situazione. Ovviamente per me non era così e perciò tutto il mio cammino è stato interno-esterno. Inoltre, la relazione con gli altri musicisti mi ha permesso di conoscere meglio il mondo perchè ho avuto a disposizione più strumenti. Questo non significa che io sono un uomo migliore, ma, quantomeno, ho sperimentato la relazione con l'alterità.
C’è mai stato un momento in cui questa disarmonia ti ha bloccato? Si dice che l’ansia, per esempio, è qualcosa che può stimolare la creatività, in altri casi invece diventa qualcosa di patologico e ti può bloccare.
Mi ha bloccato la disillusione, non l'ansia. Ho la fortuna che ogni mattina rinasco nuovo, cioè senza ricordarmi di ciò che ho fatto il giorno prima. Nella realtà mi ricordo tutto, persino i nomi degli alberghi dove ho suonato, ma nella creazione mi dimentico ogni cosa e questo si è rilevato un grande vantaggio. Ciò che mi ha fermato è stata la disillusione e mi sono sentito, come si dovrebbero sentire tutti almeno una volta nella vita: il peggior criminale, il peggior mostro e contemporaneamente l'essere più sublime. Se parti da questi estremi, piano piano, trovi la tua posizione da uomo libero all'interno di un mondo che tu riesci a considerare libero. Per tre anni non sono uscito di casa e scrivevo canzoni brutte, disperate, che per fortuna non sono mai uscite; poi, con il tempo, la vita mi ha corretto.
“Canzoni brutte” è il titolo di una tua bellissima canzone in cui scherzi, ironizzi, ma dietro c'è anche un ragionamento sui meccanismi un po' distorti dell'industria attuale. Come ti difendi da questi meccanismi, oltre che scriverne?
Questo nostro mondo, specialmente il primo piano del primo mondo, è fatto di professionisti. Ad esempio: nel ciclismo ci sono i professionisti e gli amatori. Ecco, io preferisco gli amatori. È un po' la differenza che c'è tra essere istruiti ed essere educati sentimentalmente: sembra la stessa cosa, sembrano piccole sfumature di differenza, ma in realtà una cosa è essere istruiti a stare in una società, l'altra è essere educati sentimentalmente a stare in una società, avere il rapporto davvero con l'altro, essere toccati e toccare l'altro. Lo stesso assioma lo pongo nella musica.
Quindi non ti preoccupi più di tanto dei risultati, ma pensi innanzitutto a quello che vuoi fare tu.
Mettiamola così: non mi preoccupo dei risultati semplicemente perché in questo Paese chi fa una strada "di ricerca", non viene visto. È come se tirassi sassi nello stesso stagno da 25 anni ed è ovvio che non puoi pensare di venire pagato per fare una cosa del genere, così com'è ovvio che soltanto qualcuno che ha la tua stessa sensibilità viene a darti una carezza. Però, nonostante questo, la difficoltà nella sopravvivenza proprio fisica - questo sonnambolismo economico che ho vissuto in questi anni - quella carezza vale più di qualsiasi cosa che uno possa avere, perciò vado avanti con felicità, con una gioia incredibile, indicibile.
Pensando a “Piccoli fragilissimi film”, album uscito vent’anni fa e che ha ripubblicato inserendo delle collaborazioni, mi è venuta in mente che la parola “fragilità” fino a qualche anno fa nella musica era completamente bandita. Oggi sembra, forse, anche essere una forza, o quantomeno una risorsa.
Vent’anni fa era ancora più complesso. Sono andato via dal posto i cui vivevo a 35 anni e dormivo in macchina. Da un lato c'era la disperazione, la nostalgia per un mondo andato, che io stesso avevo distrutto, e dall’altro un foglio bianco, senza sapere cosa sarebbe successo il giorno dopo. Ovviamente sono momenti, sono quelli che si chiamano “nodi gordiani”. La summa di quelle canzoni era proprio questo: piccoli frammenti di fragilità messe insieme in modo da formare un racconto di questa stessa. Mi ricordo che all'epoca mi è venuto in mente “Il poeta è un fingitore”, un libro di Fernando Pessoa, in particolare il passaggio in cui afferma: “Ma quando tutti sono fingitori, il poeta cosa deve fare? Se tutti sono fingitori, deve dire la verità e perciò fare prosa”. È quello che ho fatto vent'anni fa. Ci sono dei brani in cui si capisce che avevo delle grandi difficoltà proprio dal punto di vista della sanità mentale, ma del resto, se noi non scateniamo i nostri demoni, non riusciamo a riconoscere nemmeno la gioia. Non è un discorso di sconfiggere o arrendersi ai propri demoni: semplicemente ognuno di noi è di una complessità abissale...A me viene da pensare che, nella loro impossibilità a comprendere determinati temi, le generazioni precedenti avessero nel passaggio vita-morte una forza maggiore rispetto alle nostre generazioni. Ci stiamo perdendo per non farci del male, ma paradossalmente, ogni tanto, bisognerebbe lasciare andare. Il dolore è rappresentato in maniera sempre più crudele: da un lato può servire per esorcizzarlo, ma dall'altro per chi non è tanto preparato diventa un fattore di mancata sensibilità rispetto a quel tema…Mi sembra che adesso molti ragazzi e ragazze, che non hanno gli strumenti ancora per capire questo concetto, non lo comprendono.
Che effetto ti ha fatto tornare su quelle canzoni, adesso che hai una struttura mentale e un'esperienza diversa?
Mi ha fatto un effetto strano: rivedendo le mie difficoltà vent'anni dopo, ho compreso quanto per superarle si debba entrare nella divinazione di sé e delle canzoni. C'era già tracciato, inconsciamente, un futuro normalissimo di un essere umano che cerca di sopravvivere. Istituzionalizzare la propria difficoltà, la propria fragilità, è qualcosa di duale.
Noi di Rockol affrontiamo il tema della salute anche con artisti più giovani. Che consiglio daresti a chi sta iniziando oggi?
Innanzitutto, di non considerarsi artisti perché l'arte è altro: la natura, i bambini quando corrono, quando gli esseri umani non hanno un ruolo. Questa è una delle cause di molte disabilità mentali: il non comprendere il perché del proprio ruolo, oppure negarlo, scostarsi da questo tipo di modello. Il consiglio è di fare di questa ricreazione, una terapia personale, come pulizia tramite la quale puoi finalmente riuscire a entrare nell'altro. La musica è semplicemente comunicazione, ma non comunicazione di fidelizzazione. Cerco disperatamente di allontanare da me la definizione di artista che sottende all’industria e alle vendite.
Questo contenuto fa parte della campagna di sensibilizzazione di Rockol sulla salute mentale : “Rompi il silenzio” - La salute mentale nell’industria musicale italiana - #oltrelostigma