Dardust: Il pianoforte parla a tutti (più di un producer album)

Quella di Dardust è una delle firme più riconoscibili del panorama musicale italiano: come produttore e autore, ovviamente, ma anche come musicista. In “Duality” esplorava le sue diverse anime con un album diviso tra elettronica massimalista e piano solo. Ora le riunisce con “Urban impressionism”, un nuovo album in cui le sue forme musicali si fondono: al centro c’è il piano, accompagnato da elettronica e archi. Non c’è più distinzione tra Dario Faini, DRD e Dardust, ma solo un artista che si esprime attraverso diversi strumenti: “Siamo in un'epoca totalmente fluida a livello di identità, di contaminazione, di generi”, mi spiega.
Se in molti lo conoscono principalmente come il produttore di successo, il re mida dell’urban pop, lui racconta che quel ruolo è diventata una gabbia dorata, un lavoro da fare sì ma scegliendo con cura i progetti - c’è in ballo una collaborazione con il nuovo album di Jovanotti. Dardust, spiega, vuole sfuggire alla dittatura dei numeri e della ripetizione, non gli interessa fare un “producer album” con i featuring come molti suoi colleghi, ma concentrarsi su una musica da ascoltare, in cui perdersi, senza voci a fare guide.
Come hai deciso di tornare a questa forma musicale?
Vengo dalla musica, dalla musica strumentale, dalle colonne sonore: questo percorso nasce dal 2014. È un percorso stupefacente, perché è fuori dagli schemi di quello che faccio poi come produttore. Mi ha portato a fare delle cose abbastanza incredibili, inaspettate, a fare concerti, ad avere un pubblico. Non è facile neanche raccontarlo in un mondo musicale come quello della scena attuale, però è la sfida più bella, per quello che mi riguarda. Potevo essere molto più furbo, però non sarei stato onesto con me stesso.
Cosa intendi per “essere più furbo”?
Avrei potuto fare il disco da producer, con le feat., fare i miei show con gli ospiti… Però preferisco fare 50 concerti davanti a qualche centinaio di persone, perché la musica strumentale pianistica e contaminata in questa maniera può parlare veramente a tutti - e infatti per fortuna sono sempre di più. Magari viene chi mi conosce come produttore, però viene ai miei live e si lascia a stupire.
Rispetto a “Duality” il piano è in primo piano, e l’elettronica è presente solo sullo sfondo, come coloritura.
Nell'ambiente della musica cosiddetta neoclassica spesso c'è una sorta di diffidenza e reticenza verso la melodia protagonista: noi italiani comunque veniamo da lì, dalla melodia.
Volevo partire dal piano nudo e crudo, scrivere i pezzi in maniera indipendente dalla griglia elettronica, che in passato ho usato quasi per nascondermi, anche caricando i miei brani di strati: l’esigenza era di far capire che non era solo una musica d’arredamento. Anche se non c'è la voce che ti dà una sceneggiatura, è una musica che può raccontare qualcosa, ti può far alzare in piedi come far stare seduto, ed emozionarti comunque.
C'è ancora il rischio che il piano venga percepito come muzak, come musica d’arredamento, quindi?
Spesso viene relegato lì. Nell’epoca di TikTok si punta alla massima sintesi, in cui in 30 secondi deve avvenire tutto e subito. L’ascolto più attento di un album è qualcosa di anacronistico. Ma in mezzo a queste modalità, che ti fagocitano con playlist e brani in successione, magari c'è una parte di pubblico, forse anche più adulto, che ha bisogno di un ascolto più calmo e più attento, che si lascia scoprire poco per volta, come succedeva in passato.
La musica strumentale spesso evoca ambienti naturali. Come mai hai scelto di parlare di paesaggi urbani?
Sì, il concept della musica minimalista è spesso legato alla new age: la natura, i boschi… Ma noi viviamo in un contesto urbano. Io vengo da un borgo che era la periferia di una periferia, vengo da una zona liminale, dove mi creavo una realtà aumentata con la mia immaginazione e con la musica. Il concept di questo disco è quello di raccontare, attraversi colori della creatività del pianoforte, le periferie e i luoghi che mettiamo in disparte.
Oltre all’impressionismo un tema che ricorre nei titoli e nelle ispirazioni è il brutalismo. Dove è nata questa fascinazione per questo stile architettonico?
L’impressionismo ha rivoluzionato il soggetto dell’arte, mettendo sostanzialmente al centro la vita cittadina. L’architettura brutalista è stata altrettanto rivoluzionaria perché ha messo al centro l'estetica funzionale dei palazzi riducendo tutto all'essenziale, senza le facciate ornamentali, esponendo i materiali grezzi come il cemento. Mettersi a nudo, esporre le proprie ferite è un po' il concetto del mio disco, fondamentalmente. Mi tolgo dalle facciate ornamentali del passato mettendo a nudo la mia essenza.
Come scegli e scrivi i titoli di brani che non hanno una voce e delle parole?
Faccio un po' come nel cut up di William Borroughs, che usava anche David Bowie: mi creo una mappa di nomi, di concetti, di frasi, e poi le mescolo.
Poi c'è comunque un rapporto diretto con la musica: spesso una traccia nasce da esperienze, da impressioni che ho avuto in quei luoghi, mentre altre sono nate spontaneamente, senza avere un riferimento concreto.
“Golden Cage” è un riferimento al tuo lavoro da producer: perché è una gabbia dorata?
Le aspettative del nostro ruolo all'interno del mondo spesso ti ingabbiano. Io ho avuto anni dorati, grandi risultati come produttore, continuano a esserci. Ma ora centellino questo lavoro, c’è stato quasi un burnout. Ho visto che ero troppo preso dalla pressione dei numeri: se cerchi di riconfermare il successo entri in un meccanismo da cui diventi dipendente. Da un lato creativamente la pressione ti porta un'ansia che è costruttiva. Ma dall’altro ho pensato che stavo veramente mettendo troppo da parte questa mia anima, che è fondamentalmente la cosa che mi piace di più. Ho immaginato una figura di un siddhartha urbano che dal Palazzo Dorato esce e va nei luoghi di confine a cercare la propria verità: “Golden Cage” è questo.
Continui a lavorare come produttore o è una parte della tua vita artistica che vuoi mettere in pausa?
Lo continuo a fare, quando so che posso dare tanto, e quando so che l’artista e il percorso che sto facendo mi fa splendere e ci si può dare qualcosa a vicenda. Ho lavorato in alcuni brani al nuovo disco di Jovanotti perché siamo sulle stesse direzioni, questo mi piace. Lui è un grande esploratore, in passato avevamo già lavorato ma su un pezzo solo. Adesso ci siamo trovati così bene che abbiamo continuato.
Credi che finalmente il lavoro del producer/produttore sia riconosciuto anche dal pubblico mainstream?
È una cosa che prima accadeva nell'urban, nell'hip hop, per esempio in Italia con Charlie Charles. Però non nel pop: a Sanremo con Mahmood e “Soldi” per la prima volta si vedeva il sottopancia “Dardust” e io ero fisicamente lì come direttore d’orchestra… Ecco, forse è questa la prima volta in cui si sono un po' uniti i puntini.
Spero che avvenga ancora di più con gli autori, che invece sono ancora un po’ nascosti, quando non dovrebbero esserlo,
Tu torneresti a Sanremo in una forma simile a quella di “Soldi”?
No, mi continuano a chiedere di dirigere l'orchestra, ma l'ho fatto una volta, va bene così.
Come autore qualcosa farai per il prossimo Sanremo?
Sì, può capitare, anche se al Festival fino alla fine non sai mai quello che succede, se prendono un pezzo o no, se l'artista usa una canzone o un’altra. Ma secondo me qualcosa succederà.
Sento sempre più spesso dire da artisti/e e addetti/e che quella dell’inseguimento dei grandi numeri è una bolla che rischia di esplodere da un momento all’altro. Sei d’accordo?
Si, sono d’accordo. Quando esce un disco come quello dei Cure io respiro: sento proprio una modalità anacronistica ma che comunque ha densità, potenza. In Italia penso ad artisti come Calcutta, che fanno un disco ogni 5 anni e si prendono tutto il tempo del mondo.
Prima accennavi al “producer album”: quindi la tua scelta è di non farlo, almeno per il momento?
Quando salgo sul palco voglio essere indipendente, voglio che la gente non debba pensare alla presenza fisica del cantante o alla sua voce che magari arriva da uno schermo perché è assente. Come dicevo prima, non voglio che l'ascolto sia guidato da una voce. Deve essere guidato dal mio piano, dalla musica che faccio. La voce è quasi una distrazione.
Dardust porterà "Urban Impressionism" in tour con due eventi live in location non convenzionali: il 12 marzo al Pirelli HangarBicocca a Milano, nella Sala Palazzi Celesti, con le torri in cemento armato e piombo del pittore e scultore Anselm Kiefer, e il 14 marzo presso La Nuvola di Roma di Massimiliano Fuksas. Dal 18 marzo il tour sarà in 10 città europee, partendo da Barcellona e proseguendo poi a Madrid, Lisbona, Parigi, Bruxelles, Amburgo, Berlino, Praga, Utrecht, Londra.