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Night Skinny: “I numeri stanno rovinando la resa di molti album”

Il produttore racconta “Containers”: “Nasce dalla rabbia”. L’intervista.
Night Skinny: “I numeri stanno rovinando la resa di molti album”

Un teschio, in copertina, che sprigiona rabbia. È da questo sentimento propulsivo, spesso artisticamente sottovalutato, che nasce “Containers”. Night Skinny, con il suo ultimo producer album, sta riuscendo ancora una volta a fare cultura, quindi a dare una scossa al movimento rap, e allo stesso tempo a muovere il mercato. Ma non sono i numeri la sua stella polare. L’obiettivo, a questo giro, era molto più profondo e delicato: ritrovare se stesso. Il progetto segue più la strada tracciata da “Pezzi” del 2017 e da “Mattoni” del 2019. “Botox” del 2022, infatti, è stato un esperimento volutamente estremo e aperto che, però, come racconta anche lo stesso produttore, ha creato una crepa. “Containers” è l’anfibio con cui Night Skinny torna a lasciare un’impronta, schiacciando paure e dubbi. 

“Containers” è il disco più solido che potessi fare in questo momento della tua carriera?
Pare proprio di sì. Arrivo da un disco (“Botox”, ndr) che non è stato capito al 100% anche se io continuo a pensare che dentro ci siano dei momenti importanti. Comunque ho deciso di fare un passo indietro per farne tre avanti, facendo quello che mi esce meglio: mi sono messo al lavoro su un disco totalmente rap. E così si è creato un contenitore.

Hai occupato tutto lo spazio di questo grande contenitore?
Non sono uscite tutte le canzoni su cui ho lavorato. Alcune sono state bloccate, altre sono state prese per altri dischi, altre ancora sono morte perché le accoppiate non funzionavano. Non volevo riempire il disco di episodi che non mi convincessero al 100%. Per questo motivo, a sto giro, ho fatto una selezione all’ingresso pesantissima. Ho lasciato fuori pezzi con nomi molto grossi, ma non volevo ripetizioni all’interno del progetto.

Quanto è diventato complicato, negli anni, con l’arrivo del rap nel mainstream, fare dischi come questo?
Certamente è molto più complesso. Molti artisti hanno iniziato a dire: “ma perché io dovrei regalare un mio pezzo o fare un’accoppiata inedita per un disco di un produttore? Lo faccio nel mio disco”. C’è anche da dire che il mercato è cambiato. Oggi “Containers”, per molti, sembra la salvezza perché veniamo da un periodo estivo di singoli e pezzi più aperti e pop. E quindi, quando arriva un progetto che ti dà da mangiare qualche cosa di diverso, in questo caso rap, si rimane colpiti. Ma non è proprio vero che stiamo “salvando il mercato”, semplicemente molti artisti entrano in un progetto come “Containers” perché si sentono più liberi, fuori dalle leggi di mercato e dai numeri.

Più liberi di esprimersi…
Sì, i numeri, e il loro raggiungimento e inseguimento, stanno rovinando la resa di molti prodotti, di molti album. Sembra una frase fatta, ma è la realtà.

“Botox” è stato un progetto volutamente estremo, dalla comunicazione alla resa finale. È stato un disco più aperto. “Containers” arriva come una sorta di reazione?
Quando ho annunciato “Containers” c’è stata una fetta di pubblico felice e un’altra più critica che mi scriveva “speriamo non sia come ‘Botox’”. Piano piano ne ho svelato l’estetica, a partire dalla copertina con il teschio, e ho anche fatto ascoltare degli spoiler per far capire la direzione musicale del progetto. Ho puntato su una comunicazione più asciutta, più dura. Perché sì, ero arrabbiato. Non sono stato in grado di difendere “Botox”, volevo tornare sul mercato con qualche cosa che mi rappresentasse e fosse profondamente diverso. E poi diciamolo: siamo in un periodo storico in cui ci sono continue guerre, stupri, la gente non ha una lira…non è certo un bel momento. Volevo tornare a gamba tesa.

Ascoltare il “sentimento popolare” non è un’arma a doppio a taglio che rischia di portare al ripetersi e non allo sperimentare?
Il pubblico è nostalgico. Io penso che se “Botox”, che è un disco più sperimentale, lo avesse firmato qualcun altro, sarebbe andato in modo diverso. Da me, in quel momento storico, dopo il Covid, dopo le tante collaborazioni tra rap e pop che vedevamo finire in classifica, la gente non si aspettava un disco così. Non volevano che fottessi con alcune dinamiche. Ma come detto, continuo a pensare che sia stato un capitolo divertente: mettere un autotune a Elisa “alla Kanye West”, come avviene in quel disco, è un punto alto della mia carriera (sorride, ndr).

Hai affidato le chiavi di “Containers” alle nuove generazioni, che sono il grande propulsore di questo lavoro. Anche le generazioni precedenti ne beneficiano?
Ti dico questo: vedrai che da adesso alle prossime settimane molti artisti di spessore, molti artisti di culto, vorranno collaborare con nomi come Nerissima Serpe e Papa V. Il mercato è questo. A me non pesa affatto mettere in mostra le caratteristiche di alcuni giovani che poi diventano interessanti per molti. Anzi. Con Artie 5ive, Kid Yugi e Tony Boy, è da due anni che ci incontriamo e lavoriamo. Con Tony ho un rapporto privilegiato che passa dal vedersi in studio al mattino alle 10.30, dopo un caffè alle 9-9.30, e arrivare a pranzo con già due canzoni fatte. Magari questi pezzi non usciranno mai, ma è esercizio, studio, allenamento. Stessa cosa con Kid Yugi, che doveva essere già presente in “Botox”. Poi insieme abbiamo fatto l’ep “Quarto di bue”. Questo per dire quanto questi ragazzi lavorino sulla propria identità.

“Containers” ti ha ridato forza, si sente da come ne racconti i vari aspetti. C’è stato un momento in cui ti sei messo in discussione?
Io sono molto geloso del mio suono, dei miei beat. Questo disco mi ha ridato autostima, è vero. Ci sono fasi della vita in cui le cose non vanno come pensiamo. E questo va accettato. In passato ho attraversato dei momenti più di confusione, non sto parlando del periodo “Botox” e della musica, ma a livello personale. Questo è un ambiente che ti porta a essere sempre performante, a dire delle “bugie bianche” per tenere tutto in piedi. Non è semplice. Rkomi mi ha mandato un bel messaggio prima dell’uscita di “Containers”, gli ho risposto che ero in ansia perché con questo ritorno mi stavo giocando molto. E lui, a sua volta, mi ha di nuovo scritto: “è l’ansia quella bella, senza…sarebbe tutto troppo facile”.

In “Containers” alcuni artisti si mettono in gioco su più fronti: Tedua è sia in un banger con Lazza, “Trema”, sia in un pezzo più profondo come “Dm”. In questi casi sai già in partenza che lavorerai in più direzioni?
In primis la spinta deve arrivare dall’artista. Tedua è una persona intelligente che ha fatto un blockbuster come “La Divina Commedia” e ha venduto decine di migliaia di biglietti con i suoi tour, eppure quando è arrivato in studio mi ha detto molto umilmente che avrebbe voluto incidere di più, partecipando a più canzoni di “Containers”. Quando uno decide di darti una canzone come “Dm”, quindi da solo, come hanno fatto nel disco anche Madame, Luché e Artie 5ive, significa che vuole comunicare qualche cosa di forte. Tra l’altro con Tedua, in un primo momento, non abbiamo lavorato su “Dm”, ma su un’altra traccia, rimasta fuori, bellissima. Magari uscirà più avanti. “Trema” invece arriva dall’invasamento per Travis Scott, che l’anno scorso aveva suonato a Milano e a Roma, eravamo tutti gasati: io e Tedua ci trovavamo, a fine agosto, a Milano e l’abbiamo lavorata. Poi tempo dopo è passato Lazza che mi ha detto: “io voglio stare in questo pezzo”.

I tuoi progetti hanno aperto i recinti: “Mattoni” ha dimostrato di poter andare oltre la cerchia di appassionati. Ne è conseguita in Italia una stagione di continui producer album.
È arrivata la stagione di cui parli perché le multinazionali e l’industria si sono dette: ci possiamo guadagnare. E quindi hanno iniziato a chiedere a tutti: ma perché non fai un producer album? Io li faccio dal 2010. E li colleziono da sempre. Ho tutti i “New York Reality Check 101”, “SoundBombing 1” è la Bibbia di tutto questo mondo. Ho iniziato a fare i mixtape con le basi americane su cui rappavano i miei amici molisani e abruzzesi. Poi sono andato a Bologna e alla fine mi sono detto: voglio creare la mia musica. Certo, ora a riascoltare le prime cose che ho fatto…però dentro c’è qualche cosa di magico. Sono stato svezzato da Esa: quando l’ho incontrato a fine anni ’90, l’ho visto fare beat con qualunque tipo di device. Lui è il capo.

Tutto questo che cosa ti ha fatto capire?
Che non basta prendere un emergente e metterlo sulla stessa traccia con due più famosi, per fare un pezzo che attiri e funzioni. Oppure credere che coinvolgendo uno super famoso sia scontato fare tanti stream. Non è così, ma poi…non è questo quello che conta. “Tessera sanitaria”, uno dei pezzi più forti di “Containers”, non doveva essere nel disco. E infatti nel fisico non c’è perché l’abbiamo chiusa all’ultimo. Mentre la facevamo ho sentito un’energia pazzesca, nella stanza c’era qualche cosa di magico, così sono andato in Universal e ho insistito per inserirla. Quando fai un pezzo e vivi certe emozioni, è importante che quelle emozioni le viva anche chi ascolterà il brano a casa. Solo se catturi quella forza, fai qualche cosa di unico. Lì è racchiuso il significato profondo del fare progetti come questo. 

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