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Gaslight Anthem, gli ultimi Jukebox Romeos

Il ritorno in Italia della band, al Comfort Festival di Ferrara: il racconto

Il Comfort Festival è un caso più unico che raro nel panorama estivo italiano. Prezzi calmierati, spazi vivibili, artisti che di solito non vengono nel nostro Paese e che qui trovano lo spazio che meritano. Alla cifra con la quale solitamente si acquista un biglietto per un concerto autunnale in un club, a Ferrara è possibile vedere ben sette band, tutte con ottimi suoni e senza alcun intoppo tecnico. Un piccolo miracolo, che alla sua terza edizione cambia casa e si stabilisce al parco Nuova Darsena, in quella che nelle speranze e nelle intenzioni di Barley Arts sarà la casa della manifestazione per le prossime cento estati.

Il Blues di ieri e di oggi

La giornata è ricchissima e dopo un bellissimo pomeriggio in compagnia dei Lovesick, degli Hardwicke Circus e dei Savana Funk, arriva la prima vera chicca della giornata, con il leggendario Southside Johnny e i suoi The Asbury Jukes. Il suo show di Roma è stato cancellato poche settimane fa a causa delle prevendite ampiamente sotto le aspettative, perciò la data di Ferrara è anche l’unica occasione buona per vedere in Italia la storica rock blues band del New Jersey. Inutile dire che quella di Southside Johnny è una festa d’altri tempi, che intrattiene sicuramente più la vecchia guardia presente alla Nuova Darsena, ma che non manca di raccontare ai più giovani come si facevano le cose nei migliori Anni Settanta, in compagnia di Steve Van Zandt in quel di Asbury Park.

Tocca poi ai Rival Sons, che sono la cosa più vicina a una garanzia che un concerto hard rock possa offrire, da ormai quindici anni a questa parte. Con il blues che resta il filo conduttore della giornata, Jay Buchanan e soci alzano un po’ il tiro e fanno senza troppe smancerie quello per i quali gruppi come Greta Van Fleet riempiono le arene di mezzo mondo, solo che lo fanno meglio, pur senza la quota glam. Scott Holiday, col suo look a metà strada tra Brian Molko e Johnny Depp in modalità Hollywood Vampires, è uno spettacolo dello spettacolo. Le sue chitarre sembrano animarsi e prendere vita come la Creatura sotto i ferri del Dr. Frankenstein, mentre il nostro moderno Prometeo spalleggia con classe il suo frontman, che mette in mostra il pedigree da rocker americano: folta chioma indomabile, voce squillante e movenze ipnotiche.

Prima del gran finale c’è ancora tempo per una lezione di stile da chi per tanti anni ha dovuto convivere con un fardello di appellativo: il salvatore del Blues. Headliner a parte, Gary Clark Jr. è il nome più prestigioso della terza edizione del Comfort Festival e nonostante patisca un po’ il cambio di marcia dei Rival Sons, è talmente abile da comporre una scaletta che conduce il pubblico mano nella mano nel suo mondo, dal suono sporco della sua chitarra distorta dal fuzz al calore della sua voce soul. Virtuosismi, certo, ma anche grande intensità per un viaggio emotivo di appena un’ora che basterebbe a chiudere questa edizione del Comfort Festival in sazietà. E invece no, perché il dulcis sta dove deve stare, ovvero in fundo, perciò alle 22.30 il palco è di una delle migliore rock band americane tra quelle nate da una costola di Bruce Springsteen e arrivate quando il rock era già un’altra storia: i The Gaslight Anthem.

La nuova era dei Gaslight

Mancavano dall’Italia da ben dieci lunghi, lunghissimi anni. Non dieci anni qualsiasi, ma di quelli che creano un gap e segnano il passaggio da un’epoca all’altra. I Gaslight di oggi infatti sembrano lontani almeno due generazioni da quelli del precedente appuntamento italiano. Commuove pensare che le prime file di quell’ultimo concerto all’Alcatraz di Milano in piena promozione di “Get Hurt” - il disco che nella testa dei discografici avrebbe dovuto rendere i Gaslight i nuovi Pearl Jam e che invece li ha resi ancora di più una band realmente compresa da pochi, ma buoni - erano composte da agguerritissimi ventenni che un decennio dopo si ritrovano oggi, trentenni, a condividere gli stessi metri sotto palco. Cambia la città, cambia l’epoca, ma le facce sono sempre le stesse. Tutto intorno c’è un tessuto di vecchi marinai del rock senza un porto in cui tornare, attirati da uno dei pochi fari rimasti.

In questi anni la band è migliorata, molto. Ian Perkins ha smesso di essere un uomo dietro le quinte, il turnista che teneva in piedi la baracca, ed è ormai un membro ufficiale e irrinunciabile. Brian ha preso lezioni, è diventato un chitarrista nettamente migliore e ha ritrovato quella sicurezza che gli ha permesso di superare la sua enorme sindrome dell’impostore. Ora è anche il cantante che era destinato ad essere, con quella voce ruvida che fa venire la pelle d’oca o ogni minima variazione dal sentiero tracciato in studio. Finalmente Brian canta senza l’ansia di scontentare qualcuno e lo fa in un modo così genuino, divertito e sentito da confermare che quella lunga pausa scambiata per uno scioglimento, seguita da un breve ma magnifica carriera solista, è stata una benedizione. Anche se “History Books”, il nuovo album dei Gaslight, forse non ha avuto lo stesso impatto dei precedenti, lo stato di benessere del gruppo e della sua nuova musica è linfa vitale, per i fan e per gli amanti del rock alternativo.

La scelta dei brani è strana. Nonostante per la prima volta in tantissimi anni di tour mondiali i Gaslight abbiano cercato di uniformare le scalette del tour, variando pochissimo da una data all’altra, quella di Ferrara si discosta un po’ e lascia per strada alcuni pezzi apparentemente irrinunciabili come “Get Hurt”, “History Books” e “Blue Jeans & White T-Shirts”. Brian però accoglie nell’ilarità generale un paio di richieste dal pubblico aggiungendo pezzi in corsa, senza sacrificarne altri. Così i Gaslight regalano una insperata Halloween e la pietra miliare 1930, forse il brano più esplosivo dello show. Non il suo momento migliore però, perché quel quello c’è da scomodare la storia della musica e lo smisurato amore di Brian Fallon per questa.

Del perché ne vale sempre la pena

“Questa è una canzone che ero solito ascoltare sull’autobus andando a scuola, ogni giorno. Pensavo a questa ragazza di nome Erin Gallagher, irlandese. Ha sposato un’altra persona ma va bene lo stesso, perché io ho sposato questi ragazzi” - dice indicando i suoi compagni, visibilmente divertiti. “Ma è di questa band che si chiama Mother Love Bone, dalla quale poi sono nati i Pearl Jam. Si intitola Chloe Dancer”. E da lì in poi Brian dismette le vesti fuori misura del frontman, della rockstar, e torna uno di noi. Prende per mano il suo amore per il grunge e canta col cuore in mano, mimando quei versi ermetici come se stesse riavvolgendo il nastro. Sfoggia un sorriso dolceamaro, come i ricordi associati alla canzone. “Dreams like this must die” è la sentenza finale di questa chicca regale, che commuove, e in questa emozionante serata unisce così tanti puntini da realizzare dei meravigliosi affreschi sulle pareti crepate di un rudere chiamato rock and roll.

L’intero immaginario legato all’inconfondibile poetica dei The Gaslight Anthem rivive, dieci anni dopo, canzone dopo canzone. Ci sono le vecchie auto americane degli autostop, dei drive-in, delle lunghe highway che furono il palcoscenico della Beat Generation. Ci sono ruote panoramiche, fuochi d’artificio, radio antiche, tatuaggi sbiaditi, lettere scritte a mano e amori impossibili, ricordati al bancone di un bar che risuona di un vecchio Jukebox per cuore spezzati. In questa atmosfera d’altri tempi il pogo finale su “Backseat” e “The 59 Sound” non si apre semplicemente, ma sboccia. La chiamata alle armi degli ultimi romantici raccoglie poche adesioni volontarie, ma sufficienti a mettere un sigillo solenne sul ritorno in Italia dei The Gaslight Anthem e convincerli che nonostante questo non sia il loro folto pubblico americano, o anche solo inglese o tedesco, ne vale comunque la pena.

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