Lamante è una delle emergenti rock più interessanti in Italia
Lamante, ovvero Giorgia Pietribiasi, cantautrice classe ‘99, nata e cresciuta nella città di Schio, un nome su cui scrivemmo già un anno fa, porta con sé urgenza espressiva, rabbia, dolcezza, dolore, espiazione, attitudine rock e spirito folk. È una delle emergenti, in questo momento, più interessanti in Italia. Il suo disco d’esordio “In memoria di”, prodotto insieme a Taketo Gohara, che ha voluto fortemente lavorare con lei dopo aver ascoltato alcuni primi pezzi, è un viaggio nelle stanze della sua vita. Ascoltandolo, soprattutto live (è impegnata in un tour estivo), trasmette qualche cosa di strettamente reale e allo stesso tempo di magico. Lamante non prova a vendere canzoni, come molti newcomers di oggi, ma tenta di fare arte, mossa da qualche cosa di profondo e di legato in primis a una ricerca personale.
“In memoria di” è un disco di scoperta, ma anche di perdita?
Sì, io ho scoperto, e l’ho fatto soprattutto nella perdita. Sono sempre stata una persona molto legata alla memoria e quindi, fino a oggi, tutta la mia vita l'ho dedicata al cercare di unire i miei frammenti familiari, i ricordi, anche quelli precedenti alla mia nascita e, quando ho iniziato a fare quest'album, tre anni fa, pensavo proprio dentro la mia testa che avrei parlato di memoria. Poche settimane prima di pubblicarlo ho razionalizzato che in realtà, però, stava capitando l’esatto contrario di ciò che mi ero prefigurata: il disco mi stava permettendo di poter “perdere” finalmente questa memoria, questa storia familiare, composta anche da elementi negativi. L’album da atto artistico è diventato fatto biografico.
Nel racconto, tra una canzone e l’altra, sembra che tu ti muova tra realtà e favola dark.
Fra questi due mondi per me c’è un legame, come nella scrittura di Alejandro Jodorowsky. C’è una sorta di "realismo magico" che io amo tantissimo. Ogni mio trauma familiare è come se diventasse leggenda, epica. Io sono sempre stata convinta che la storia personale non è composta tanto dal ricordo in sé, ma da come viene ricordata la stessa. E così quando scrivo non mi faccio mai troppe domande sul come sia andata veramente quella situazione, ma sul come essa sia stata percepita da mia madre, da mio padre, da me etc.
Quando è arrivata la musica nella tua vita?
Fortunatamente provengo da una famiglia di persone molto legate all'arte: mia madre mi ha trasmesso l’amore per la scrittura e la lettura, mio papà quello per la musica. Ricordo perfettamente il primo concerto, a cui andai con mio padre. Avevo 8-9 anni. Fu un momento epifanico, una folgorazione. Mi portò ad ascoltare dal vivo i Massimo Volume. Ho questo ricordo di quest’uomo con un grande cappello, poi il suono del basso, le luci soffuse. Sentii un’energia potentissima.
Gli effetti di Emidio Clementi sulla gente.
Qualche cosa vibrava dentro di me in modo talmente forte da farmi stare male. Infatti dopo un po’ chiesi a mio padre di riportarmi a casa. Quando il giorno dopo mi sono alzata dal letto e ho ripensato alla serata, mi sono detta: “nulla mi ha mai scosso così nel profondo”. Mi veniva da piangere. E con il tempo ho capito che quella era una commozione legata a uno stato emotivo che anche io volevo arrivare a poter trasmettere.
Che cos’è successo dopo?
Beh, quella sensazione non l’ho mai dimenticata, ma anzi mi ha fatto da guida crescendo. La mia scrittura è sempre stata molto legata a questioni private. Mi ricordo le prime canzoni presentate ai miei genitori. Anche se esprimevo concetti feroci non mi prendevano sul serio, mi trattavano da ragazzina anche se io in realtà ero serissima. E paradossalmente è stato liberatorio. Nelle canzoni, finalmente, potevo dire quello che volevo, anche dare degli stronzi ai miei genitori.
Altri momenti importanti nel tuo percorso di formazione?
La scoperta di Carmen Consoli. La vidi per la prima volta su YouTube, era un video di lei a Sanremo negli anni ’90: una ragazza con i capelli corti, la chitarra, quella voce pazzesca e quelle parole che evidentemente erano figlie di una forte necessità di espressione. Ricordo che dissi: “un giorno anche io voglio essere così”. Lei mi ha trasmesso forza nell’unire lo studio della chitarra alla ricerca delle parole. Iniziai a fare tante prove, a collegare al meglio questi due mondi.
La dimensione live è qualche cosa che ti appartiene, che curi e in cui dimostri già preparazione. Ho avuto modo di vederti al festival La Prima Estate e al Mi Ami.
Sono fortunatissima perché a Schio, in generale nell'alto vicentino, c'è la cultura del live, del saper suonare. Io a 15-16 anni ho iniziato a fare concerti. Tutte le persone a me vicine suonavano, i miei amici, che oggi fanno parte della mia band, suonavano già da piccoli. Fino a un anno fa non avevo ancora pubblicato un pezzo, però avevo già fatto tantissimi concerti in localini o posti del genere. E sono orgogliosissima di essere nata prima sul palco che su un disco.
Lo ripete spesso anche Francesco Motta, anche lui attribuisce importanza a questo aspetto, ovvero all’essere stato prima musicista che cantautore.
Da dove vengo io non fregava un cazzo a nessuno se avevi le canzoni pubblicate o meno, quello che contava è se sapevi suonare ed eri credibile sul palco, qualunque esso fosse. Questo permette di crescere, di ottenere consapevolezza.
Perché Lamante?
Una Giorgia c’è già (ride, ndr). Tra l’altro mi chiamo così in onore suo. Il mio cognome è impronunciabile. Quando chiesi a Taketo di pronunciarlo, non ci riusciva e quindi come possibile nome d’arte l’ho scartato. È uno scioglilingua. E poi il mio cognome a Schio è ben conosciuto e fa male. È legato alla storia della lotta operaia e all’arrivo dell'eroina, quindi non sarebbe stato facile portarlo con me anche nella musica. Ho ragionato sul fatto che le parole "tradimento e tradizione" sono legate e fanno parte della mia vita. Tradimento, nella sua etimologia, vuol dire consegnare a un altro, qualche cosa che richiama anche alla tradizione. La mia musica è come se tradisse i miei antenati.
In che cosa li tradiresti?
La storia della mia famiglia è sempre stata portata avanti dagli uomini, anche sul fronte dell’estro artistico. Io rompo questa catena, anche se non del tutto perché comunque parlo dei miei parenti nelle canzoni. Comunque il concetto di tradimento mi ha portato a “l'amante”, che si prende tutto senza alcun tipo di responsabilità, ma allo stesso tempo non riesce a raggiungere una relazione completa. E poi c’è un richiamo alla mantide religiosa. E tu sai come si comporta la mantide, vero? (ride, ndr).
Levante ti ha voluta nella nuova versione di “Duri come me”. Che cosa hai provato?
Una collaborazione bellissima, un riconoscimento per me importante. L’abbiamo anche cantata insieme quando lei è passata in tour a Padova. Io andai a vederla al Forum di Assago anni fa, ho sempre apprezzato il suo lato più energico, ma anche quello acustico, diretto. Proprio su quest’ultimo c’è qualche cosa che ci unisce, una sorta di animo folk. E poi ci lega altro. Il dolore, senz’altro. Anche lei me l’ha detto. Ricordo le sue parole: “anche io sono stata Lamante”.
Tu adesso vivi a Milano, non più a Schio. Volevi “scappare”? Il rapporto con le tue radici dopo un disco come questo?
Sono già scappata tante tante volte, è da quando ho 16 anni che scappo. Sono a Milano per amore, non per altro. Mi sta sul cazzo il centrismo musicale che si attribuisce a questa città, come se tutto dovesse succedere qui. E infatti sono molto fiera di aver lavorato e registrato il disco a casa, a Schio. Era inevitabile visto quello che racconto nel progetto. E questo mi ha legato ancora di più al mio territorio. Giovanni Lindo Ferretti ha dovuto andare in Mongolia, dall’altra parte del mondo, per capire dove volesse vivere per davvero. Io non so cosa succederà nella mia vita, ma so che provengo da una terra di contadini. Il mio nome significa “uomo che lavora la terra”. È come se le mie radici fossero nel mio destino. “Dove si nasce alla fine si muore”, si dice.