Kristin Hersh e l’arte di perdere se stessi per scrivere canzoni
Se ai tempi di Woodstock chiunque avesse avuto in tasca uno smartphone, oggi avremmo la foto di una bambina molto piccola ferma a mezz’aria, mentre vola sopra la recinzione dell’area concerto. Da un lato il padre che l’aveva appena lanciata, dall’altra la mamma, pronta a raccoglierla per tenersela vicina in quelle giornate di musica, pioggia, fango e visi dipinti. Quella bambina era Kristin Hersh, in questi giorni in Italia per portare in giro con una serie di concerti il suo recente “Clear Pond Road”, ma anche il suo libro “The future of songwriting”, uscito a febbraio, l’ennesima riflessione sul cantautorato, stavolta affrontata con un saggio dedicato e non tra le pieghe di romanzi autobiografici com’erano “Rat Girl”, “Seeing Sideways” e il meraviglioso “Non fare stronzate, non morire”, dedicato a Vic Chesnutt (cantautore suicidatosi nel 2009) e uscito in Italia per Jimenez nel 2019 (è recensito qui da Rockol).
Seduta a un tavolo spartano in una stanza accogliente del circolo Arci “Il Progresso” di Firenze, dove sta per dare il via al tour italiano, la leader delle Throwing Muses e dei 50 Foot Wave ha davanti la tazza con una tisana e la chitarra in braccio, anche se deve solo parlare. Si ragiona soprattutto di cantautorato, di music business, di donne e di sessismo, ma anche di bambini e delle sue canzoni: i suoi temi preferiti, insomma. Però la storia di Woodstock, raccontata nel suo ultimo libro, è troppo bella per ignorarla: “Avevo tre anni – ride - troppo piccola per ricordarmi qualcosa, ma mi diverte ancora molto. La mia infanzia era un po’ così, so di essere stata a tanti altri concerti, come quelli dei Byrds. Queste sono storie che mio padre potrebbe raccontare meglio di me, però”.
Hai scritto spesso che le canzoni nascono per conto loro, e nel libro per Vic Chesnutt c’è un aneddoto in cui rispondete a un giornalista che solo le pessime canzoni possono nascere dal pensiero razionale. Che cosa intendi?
“Ammiro molto il lavoro che nasce dal cervello, e anch’io ovviamente lo uso, ma penso che sia come un cane: se lasci che sia lui a condurre, ti ritrovi a girare in cerchio senza andare da nessuna parte. L’energia si trova sia dentro che fuori di noi: le mie canzoni hanno bisogno delle mie impronte digitali e delle mie stranezze, ma quando nascono non sono mie, usano semplicemente la mia vita per esistere, esattamente come fanno i bambini quando vengono al mondo. Invece il music business non ha bisogno di canzoni, vende prodotti”.
Quindi quella musica è fatta con il cervello per raggiungere nel più breve tempo possibile, e per un tempo breve, il maggior numero di persone?
“Esattamente. Molti anni fa dissi alla Warner Bros. che io preferivo avere una sola persona che ascoltasse le mie canzoni un milione di volte che avere un milione di persone che le ascoltassero una volta sola. Ma non è così che funziona per loro, non vogliono la musica, perché non puoi dire a un appassionato di musica cosa comprare: quella è una questione d’amore, e l’amore non si vende o si compra, proprio come la vera musica”.
Nel tuo ultimo libro scrivi che il futuro del songwriting sta nel passato e parli della musica come fatto collettivo. Ti riferisci a una comunità autori più ascoltatori oppure a un atto creativo collettivo, un po’ alla maniera del folk, per intenderci?
“Credo che siano entrambi punti di vista giusti. Credo che la canzone sia qualcosa di visionario e che ci sia qualcuno che ha una visione e scrive, ma c’è anche qualcosa di magico nella modifica collettiva di una canzone, che può cambiare andando in giro, e nessuno può sentirsi troppo affezionato alla forma delle sue canzoni. C’è l’idea di avere il proprio nome su un’insegna illuminata, ma è un fatto di ego, non di anima. Magari si parte dalla vanità e dal voler fare soldi, ma l’anima non ha bisogno di soldi e allo stesso tempo i soldi non sono in grado di fare la musica”.
Quindi ha rovinato tutto Bob Dylan nel 1965, quando è diventato una rockstar e ha smesso di sentirsi parte di una comunità? È una battuta, chiaro, ma probabilmente gli piaceva avere il nome scritto grande e illuminato.
“Gli piaceva di sicuro, ma non pensavo a lui mentre parlavo prima. Le rockstar vogliono sempre mettersi un costume e recitare una parte. Se penso a tutte le mie band preferite, Violent Femmes, Pixies, Dinosaur Jr, probabilmente volevano tutti diventare rockstar, e va benissimo, lo capisco, perché è dura pagare l’affitto, e anche perché con il successo compri tempo per suonare la tua musica, ma per me va in modo diverso. A volte i songwriters riescono a funzionare anche nel mondo del music business, ma di solito non ce la fanno: o muoiono, come è successo a Kurt Cobain, o scoppiano, com’è successo a Cat Stevens, un altro che ha avuto grande successo scrivendo belle canzoni.
Anch’io ho dato di matto, ho lasciato le corporation, ma ho avuto il supporto degli ascoltatori. Certo, ogni anno devo cambiare il modello di business per farlo funzionare, ma non riesco a fare diversamente. Quando ho chiesto alla Warner di lasciarmi andare, mi hanno risposto che volevano una canzonetta per la radio, e con il resto del disco potevo fare quello che volevo, ma il fatto è che alla fine avrebbero voluto solo canzonette, battute, sessismo, caramelle. Quando ho deciso di lasciarli ci hanno dichiarato guerra, hanno detto: vi distruggeremo. E lo hanno fatto, ai negozi non arrivavano i dischi anche se li avevano ordinati, e alle radio fu detto chiaro di non trasmetterli. Alla fine sai com’è andata? Che il disco delle Throwing Muses che cercarono di far fuori è quello che ha venduto di più (ride)”.
Un po’ come successe a Leonard Cohen con il boicottaggio di "Various Positions", che non fu nemmeno pubblicato negli Stati Uniti, anche se conteneva "Hallelujah", che sarebbe diventata famosa anni dopo. Quando fu pronto il successivo, “I’m your man”, Cohen mandò una lettera alla Columbia con dentro 20 dollari e un biglietto: questi sono i soldi per i francobolli, nel caso voleste mandare un comunicato alle radio e alle riviste.
“A volte succedono cose divertenti. Un giorno ero alla Warner per un incontro molto contrastato, e dissi loro: state cercando di trasformare i miei ascoltatori in fan, ed è un insulto per loro cercare di attirarne l’attenzione con la moda e le altre stronzate di quel tipo. Quel giorno c’era anche Prince, che aveva avuto una discussione simile. Mi aprì la porta e disse: un giorno vinceremo”.
Possiamo immaginare per te una divisione tra la musica che scrivi, che nasce dal cuore, e i concerti, che sono lavoro per pagare l’affitto, come dicevi prima?
“La musica vera arriva anche nei concerti, quando il pubblico risponde in un certo modo, quando diventa un respiro circolare e posso perdere me stessa, perché in quel modo ripeto la stessa ispirazione che ho quando scrivo. Naturalmente funziona solo nelle serate in cui faccio le cose bene, e non lo so mai prima (ride)”.
Hai parlato di perdere te stessa, e nei libri hai scritto che le due cose che ti aiutano a farlo sono le canzoni e i figli.
“Ma certo, è vero, tutti dovrebbero perdere se stessi. Chi non ci riesce deve portarsi sempre dietro un fardello pesante. Sarebbe orribile”.
L’ultimo album si intitola “Clear Pound Road”: uno stagno limpido significa che la tua vita in questo momento è tranquilla?
“Ero in un negozietto di roba vecchia con il mio figlio più piccolo e abbiamo visto un cartello stradale da una parte che diceva “Clear Pond Road”. Mio figlio mi ha detto: mamma, dobbiamo comprarlo, perché è lì che vogliamo andare. Era un momento difficile, eravamo rimasti in due nella nostra famiglia, dopo essere stati in sei. Quando abbiamo cominciato a far funzionare le cose, ho scritto il disco. Somiglia molto al mio primo album solista, “Hips and Makers”, ma senza il fango che c’era lì. Amo il mio primo disco, ma lì l’acqua è torbida, qui i colori sono vividi. Quando l’ho finito ho chiesto a mio figlio: ce l’abbiamo fatta? Mi dai il permesso di chiamarlo “Clear Pond Road”? E lui ha detto (fa la voce grave): sì, certo”.
Che differenza c’è tra scrivere canzoni e libri? Le prime nascono per conto loro e invece per i libri c’è bisogno di lavorare di più con il cervello?
“Non lo so. Il mio primo libro, “Rat Girl”, in un certo senso è venuto fuori intelligente, e io odiavo che fosse quella la sua qualità. C’è voluto del tempo perché i miei libri trovassero la loro voce. Non è così diverso dalle canzoni, in realtà, solo che con i libri è stato più difficile, perché parlavo di realtà, di cose che sono successe. Vale anche per le canzoni, ma quelle hanno un modo diverso di usare le parole, le reinventano, stravolgono il loro significato. Hai presente la sedia di Van Gogh? La amiamo perché riconosciamo che è una sedia, ma lui pur conoscendola, non ha usato la parola sedia per descrivercela, ha usato la bellezza. Per le canzoni è la stessa cosa, e credo che i miei libri somiglino sempre di più ai testi delle canzoni, cercano di reinventare la lingua, perché la lingua è una cosa bellissima, ma ha bisogno di una sedia di Van Gogh. Quello che cerchiamo di raggiungere è la sincerità, e forse in prosa è ancora più importante che nelle canzoni, e quei dipinti ti consegnano la realtà intima di una sedia, anche se non devi sederti lì sopra. “Rat Girl” è venuto in un modo che non mi soddisfa del tutto, ma nel libro su Vic ci sono io. L’ho appena riletto, perché sentivo la sua mancanza, e mio figlio lo sta leggendo in questi giorni così mi dice: mi ero dimenticato che quella è stata la mia infanzia”.
Parli spesso di sessismo della musica.
“La musica delle corporation non è una donna, è una ragazzina con parecchio make-up che fa una faccia strana alla telecamera. Non esiste maternità, non esiste dolcezza, non c’è tranquillità. Io non riesco a fingere quando lavoro, ma evidentemente il rumore che faccio non è quello che quel mondo si aspetta. Devi essere molto magra, metterti vestiti attillati e guardare dritto in camera. Il problema non sono mai le persone, sono le corporation. A volte mi fanno capire che non guardo la camera nel modo giusto, e io spiego: sono una donna sposata, ho quattro figli. A quel punto mi dicono ah, ok, allora va bene, come se avessi fornito la giustificazione”.
C’è da auspicare che tutto questo sia alla fine, no?
“Dici? Non saprei. Mi dai speranza, ma credo che il problema sia l’attenzione che per abitudine diamo al fare i soldi. Anche ragazzini mi sembrano spinti ad avere i comportamenti che servono per fare soldi, che non abbiano nemmeno il tempo di guardare il mondo perché sono forzati a pensare al modo in cui porsi per guadagnare, è tutto aggressivo e spaventoso. Ma forse hai ragione, siamo alla fine di tutto questo”.
Diciamo che la mia è una speranza, ma che voglio crederci, anche perché siamo già in ritardo.
“Vero, ma siamo ancora vivi”.
Poco dopo, mentre firma il frontespizio di “Non fare stronzate, non morire”, pensa di nuovo alla speranza e aggiunge: “Anch’io voglio credere nella speranza, Vic invece l’aveva persa, ecco quello che è successo”.