8 marzo: 8 biopic al femminile da (ri)vedere

La realtà, il cinema, la musica: in ciascuno di questi ambiti le donne hanno meno visibilità della loro controparte maschile, come ben ci ricorda la ricorrenza dell'8 marzo. Una visibilità conquistata graffiando e tenendo i piedi ben saldi a terra, per difendere e presidiare uno spazio spesso minimo.
Lo si capisce pensando al mare magnum dei film biografici musicali, genere gettonatissimo al cinema, che non sembra conoscere crisi. Stilare una classifica delle migliore performance in generale dei biopic musicali, degli interpreti che più hanno regalato emozioni nei panni di colleghi cantanti e musicisti, sarebbe una passeggiata. Anche in questo ambito infatti la maggior parte dei progetti vede per protagonisti gli uomini.
Più complicato stilare una lista di grandi performance cinematografiche femminili in ambito musicale. Non che manchino grandi film segnati da grandi performance, anche se abbondano, più che altro, film mediocri elevati da una performance sublime, memorabile dell’interprete protagonista. Rimane il fatto che, scegliendo di selezionare solo le migliori (anche rimanendo un po’ di manica larga), non includendo in automatico ogni titolo prodotto, non è facile stilare una classifica .
C’è ancora tanto lavoro da fare, ma un punto di partenza c’è. Il punto d’incontro tra donne che hanno fatto la storia della musica con la loro incredibile carriera e/o la loro vita straordinaria e le interpreti che hanno messo tutte se stesse (talvolta anche vocalmente) per farle rivivere su grande schermo.
Il criterio di selezione è quello del racconto biografico di figure musicali, protagoniste o contigue alla scena artistica. Quindi niente musical in sé e per sé, niente Barbra Streisand e Lady Gaga alle prese con personaggi fittizi.
"La signora del blues" (1972)
Il primo film della lista è un caso esemplare di cantante che diventa attrice per interpretare una collega leggendaria. Nel 1972 Diana Ross conquistò una nomination agli Oscar al suo debutto cinematografico incarnando Billie Holiday nel film di Sidney J. Furie.
Il ritratto di Holiday è ben più vibrante della pellicola che lo contiene. “La signora del blues” ricalca il più classico degli archi di nascita e caduta di una stella, prendendosi parecchie libertà biografiche e narrative. Diana Ross però incanta, ancor prima di aprir bocca e cantare. Tanto che, all’epoca dell’uscita, molti conoscenti di Holiday protestarono che quella ritratta nel film era una donna che caratterialmente aveva molto più in comune con l’interprete che con l’interpretata. Essendo però Diana Ross a sua volta una leggenda…
Pellicola bonus: c’è un altro biopic che racconta la stessa artista, la stessa storia e che ha attratto critiche e polemiche molto simili: “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday” (2021). Pur con molti limiti, è un film che introduce con molta più forza un elemento chiave della vita di Holiday: il suo cantare politico per denunciare l’oppressione dei neri. Inoltre Andra Day è ancora più spettacolare di Diana Ross nel ruolo. Dovessi scommettere su un film che verrà rivalutato col tempo di questo filone, punterei su questo.
“La ragazza di Nashville” (1980)
Il titolo originale del film dedicato alla cantautrice country Loretta Lynn è quello di una sua celebre hit: “Coal Miner's Daughter”. Oggi quasi dimenticato, il film di Michael Apted con protagonista Sissy Spacek valse all’attrice un premio Oscar per la sua interpretazione e conquistò altre sei nomination, imponendosi come uno dei titoli più amati di quell’annata.
Nel 2024 Spacek è ricordata soprattutto per il suo immortale ritratto orrorifico di Carrie, la protagonista telecinetica del film tratto da un celebre romanzo di Stephen King. Ritrovarla nei panni di Loretta Lynn significa scoprirla sotto un’altra luce e apprezzarne anche un talento vocale sopra la media. Il merito più grande di “La ragazza di Nashville” però è di dimostrare quanto un biopic musicale (maschile o femminile che sia) possa funzionare a livello cinematografico, raccontare una storia coerente e sentita, muovendosi fuor di stereotipo, senza rincorrere un momento “iconico” dopo l’altro.
“Sid & Nancy” (1986)
“Lei era indomabile e persino più folle di lui. Era la sua regina, e Dio salvi chiunque manchi di rispetto alla sua regina”. La storia musicale spesso racconta le donne come figure gregarie e ancillari degli artisti - "un passo indietro", nell’infelice espressione sanremese di Amadeus - quando non si sconfina direttamente nella figura dell’algida seduttrice che distrugge la fratellanza artistica della band di turno, portando a litigi, divisioni, carriere soliste, morti leggendarie. Non poteva mancare una rappresentante di questa figura quasi mitologica, molto raccontata anche al cinema: non poteva mancare una Nancy, una Yoko.
Ho optato per la prima e per un film incentrato proprio sulla sua tormentata storia d’amore con il bassista dei Sex Pistols, Sid Vicious. Nancy qui è così centrale da diventare protagonista titolare della pellicola: come si fa a non includerla in questa classifica?
Dall’incontro a New York fino alla discesa nel vortice delle droghe, il reg Alex Cox affida all’attrice Chloe Webb il compito di tenere testa a uno scatenato Gary Oldman. “Sid & Nancy” racconta una coppia reale della musica ribelle, mettendo in chiaro sin da subito quali sono i rapporti di potere di una relazione esplosiva.
“Tina – What’s Love Got to Do with It” (1993)
Quando Ariana DeBose ha cantato il suo celebre rap “Angela Bassett did the thing!” avrebbe potuto tranquillamente riferirsi a questa superba interpretazione dell’attrice afroamericana Angela Bassett.
Questo biopic è (stereo)tipicamente anni ‘90: Anna Mae Bullock diventa Tina Turner seguendo il Vangelo dettato dalla stessa cantante nelle sue memorie. Siamo insomma in territorio assolutorio, forse persino un po’ in odore di santità, mescolato al topos musicale delle cantanti famose ostaggio di mariti-manager violenti, trattato purtroppo con grande banalità dal film. Bassett però ci mette l’interpretazione, la prossemica, l’anima. E dire che la produzione aveva offerto il ruolo praticamente a ogni attrice hollywoodiana prima di lei: Whitney Houston era andata vicinissima ad accettarlo, ma fu bloccata da un’imminente gravidanza.
Al contrario, Lawrence Fishburne, che interpreta lo spregevole marito della protagonista, venne inseguito dai produttori. Alla fine anche lui ammise che Ike Turner era un personaggio inutile, la sua presenza quasi accessoria: tutto il lavoro l’aveva fatto la collega.
“Quando l’amore brucia l’anima – Walk the Line” (2006)
“Walk The Line” non è solo un ottimo biopic musicale: è un grande film diretto da James Mangold, che entusiasmò la critica nell’anno di uscita. In teoria il protagonista musicale è maschile: un intenso memorabile Johnny Cash a cui dà carne e anima Joaquin Phoenix.
Siamo però di fronte a un’altra storia d’amore e musica centrale nella narrazione del film. Più che centrale: “Walk The Line” è un film di coppia, che si regge completamente sul rapporto duale tra protagonisti. La pellicola è infiammata dalla chimica stellare tra Reese Witherspoon e Joaquin Phoenix, dalla loro capacità d’incarnare pubblico e privato di una coppia tormentata. Quanto sia grandiosa l’attrice nel non scomparire al fianco del protagonista lo racconta la storia: alla fine l’Oscar lo vinse solo lei, proprio per come seppe rendere vivida, indispensabile, memorabile la figura di June Carter Cash.
“La vie en rose” (2007)
Quando si parla dei biopic musicali migliori di sempre (in generale) questo titolo compare in ogni singola classifica o lista ed è uno dei primi che viene alla mente quando si pensa a questo genere specifico. Considerando che non è nemmeno una produzione hollywoodiana, si ha già una cifra del suo enorme impatto.
Si può argomentare se Marion Cotillard nei panni di Edith Piaf dia o meno la miglior interpretazione musicale di sempre del genere. Diciamo pure che poche interpretazioni competono con questa, come base di partenza. Impossibile però sminuire l’enorme popolarità di questo film e la grandissima influenza che ha avuto su tutto il genere.
È dall’incredibile lavoro operato dal trucco per trasformare la sensuale Marion Cotillard in la Môme, la voce di una nazione, che i biopic s’intestardiscono sulla mimesi esasperata dei propri protagonisti. Le protesi e il trucco qui fanno un lavoro enorme: tra l’attrice e la cantante c’è una nettissima differenza di statura, fisico, tratti somatici.
Tutto il trucco però scompare in una performance davvero strepitosa, che portò l’attrice francese a vincere un Oscar in un periodo in cui per gli interpreti non anglofoni era una missione quasi impossibile. Negli anni successivi c’è voluta tutta la sua bravura per fare in modo che l’ombra lunga di quel ruolo non la annichilisse.
Il ritratto di Edith Piaf in “La vie en rose” centra l’impressionante potenza emotiva della cantante e della donna, ancor prima di farla cantare. È un film che a malapena contiene l’interpretazione che lo guida, che proprio come Piaf riesce a uscire a testa alta da ondate di dolore, dramma, morte. Memorabile.
"Nico, 1988" (2017)
“Sono molto brutta? Bene, perché non ero felice perché quando ero bella”. È con un certo orgoglio che si può inserire a buon diritto un film italiano e un titolo diretto da una regista in questa classifica. “Nico, 1988” è stata un’autentica folgorazione per come Susanna Nicchiarelli confeziona un biopic alternativo, ruvido, graffiante, regalando uno dei ritratti femminili più belli e fuor di canone dell’intero genere.
È anche un film estremamente contemporaneo, svestito di retorica. Ignora completamente ciò che rese Christa Päffgen celebre prima dell’inizio della pellicola: modella, ex musa di Andy Warhol e cantante dei Velvet Underground, amore di Lou Reed. Si concentra solo sul tour da solista della cantante, interpretata con grande carisma da Trine Dyrholm.
Lasciate alle spalle giovinezza, fama e glamour, Nico si rivela più rock che sopravvissuta, capace di rimanere fedele a sé stessa, di non annegare nella nostalgia. Nicchiarelli poi racconta impietosamente la lotta di Nico per non essere ridotta, da voce femminile dei progetti altrui, a femme fatale di Lou Reed: “la mia vita è cominciata solo dopo aver cantato per i Velvet Underground”, dice Christa nel film, ma nessuno la sta ad ascoltare.
“Judy” (2019)
Ci sono film che sono semplicemente innamorati della loro protagonista, che buttano il cuore oltre i suoi limiti, i suoi difetti, i suoi eccessi. “Judy” è la definizione di questo tipo di progetto: un biopic che rinuncia all’ascesa e alla caduta per ascoltare un emozionante canto del cigno.
Biopic contemporaneo concentrato su un breve lasso di tampo, “Judy” affonda a piene mani nella crisi esistenziale di una Judy Garland ormai anziana, sopravvissuta a mille cadute, terrorizzata di non avere la forza di rialzarsi ancora una volta, in difficoltà nel ruolo di madre.
Nel raccontarne le fragilità, i terrori, le mancanze di donna e madre dipendente dai farmaci e dall’amore del suo pubblico, ne restituisce un ritratto tenerissimo, commovente. Siccome conosce bene il suo pubblico, il film trova anche il tempo, la voglia e l’estro di esplorarne lo status di icona gay.
Certo è un po’ sentimentale e molto canonico, ma ha l’enorme fortuna di poter contare su una Renée Zellweger a cui questo ruolo suscita una commozione enorme, intensa, palpabile.