Don Claudio Burgio racconta Baby Gang

Sono stati condannati rispettivamente a 6 anni e 4 mesi e 5 anni e 2 mesi i rapper Mohamed Lamine Saida, detto Simba La Rue, e Zaccaria Mouhib, ossia Baby Gang (qui il nostro articolo sulla sua musica), nel processo milanese con rito abbreviato con al centro la sparatoria avvenuta nel luglio 2022 in via di Tocqueville. Fondatore e presidente dell’associazione Kayrós che dal 2000 gestisce comunità di accoglienza per minori e servizi educativi per adolescenti, don Claudio Burgio, è diventato collaboratore di don Gino Rigoldi come cappellano dell’Istituto penale minorile “Cesare Beccaria” di Milano. Accanto all’attività pedagogica che lo vede impegnato quotidianamente con i ragazzi delle comunità, numerosi sono i suoi interventi in dibattiti e incontri pubblici su temi sociali di attualità, su spiritualità, educazione, famiglia, tossicodipendenza, emarginazione giovanile. È autore di “Non esistono ragazzi cattivi” (Edizioni Paoline, 2010), racconto-testimonianza dei primi anni vissuti a fianco dei ragazzi del carcere minorile e delle comunità Kayrós. È anche un appassionato musicista-compositore. A don Claudio abbiamo chiesto di raccontarci Baby Gang, che conosce da diverso tempo.
Quando ha conosciuto Baby Gang?
“Zaccaria l’ho conosciuto nel carcere minorile Beccaria di Milano, aveva 15 anni. Era piccolo, esile, parlava poco, ma quando lo faceva era simpatico. Fu poi trasferito in altri istituti e quando ha fatto rientro al Beccaria, dopo un anno e mezzo, mi ha chiesto se potesse essere accolto nella mia comunità. Gli chiesi se fosse davvero sicuro di questa scelta, visto che ne aveva già falliti tanti di percorsi comunitari. Mi ripeteva che voleva farlo per lavorare sulla musica e diventare un cantante. Io gli suggerivo di pensare anche a un piano b, ma lui si intestardiva e mi rispondeva che quelle parole volevano dire che non credevo in lui”.
Come reagì?
“Rimasi colpito. Dopo che il magistrato accolse la richiesta e arrivò in comunità, lo portai a registrare in uno studio. O io o altri educatori lo accompagnavamo. E lui ci dava davvero dentro, mostrava un impegno che non aveva mai messo in campo in quel modo. Mi ricordo quando mi fece ascoltare la sua prima canzone. Eravamo in cucina. Rimasi spiazzato: si notava già allora del talento, qualche cosa di diverso”.
Perché secondo lei Baby Gang oggi è ascoltato da così tanti ragazzi?
“Me lo sono chiesto più volte. E aggiungo anche che viene ascoltato da migliaia di giovani che però non sono come lui, non arrivano da contesti come il suo. Zaccaria arriva dritto alle nuove generazioni perché parla il linguaggio della realtà. Una realtà che in molti casi gli adulti non vogliono vedere, per questo rimangono quasi spaventati da quelle canzoni”.
Ci spieghi meglio quella realtà.
“Zaccaria arriva da Lecco. Una città ricca dove c’è lavoro. Eppure anche in quei contesti cittadini ci sono persone come lui che hanno vissuto nel degrado, nella privazione e in case fatiscenti. Il suo racconto parte da lì, parte dalle seconde e terze generazioni che in molti casi sono ai margini della società anche dove sembra esserci solo tanto denaro. Lo fa in modo a volte spietato e inquietante? Sì. Ma tra quella rabbia e quella narrazione ci sono dei macro temi come il disagio giovanile, la povertà educativa e quella culturale”.
Riguarda tutti?
“Per forza di cose. Il primo luogo in cui Zaccaria si è sentito discriminato, lui nato in una famiglia di immigrati originari del Marocco, è stata la scuola. E questo già dovrebbe farci riflettere. Le sue canzoni, a volte indubbiamente violente, ci costringono però a tenere gli occhi aperti”.
La sua comunità crede molto nel potere aggregativo della musica.
“Io da sempre amo la musica e l’ho anche esercitata. Non conoscevo bene il linguaggio del rap, ma ne ho subito percepito la forza. Così abbiamo avviato dei laboratori di rap in comunità, i ragazzi hanno reagito benissimo. Da noi sono passati Zaccaria, Sacky, Simba La Rue e altri. L’etichetta Sugar, recentemente, ci ha fatto un dono: uno studio di registrazione. Da qui anche l’idea di mettere in piedi una nostra piccola etichetta per cercare di offrire competenza e professionalità, ed essere una piccola cantera”.
Questa attività meritevole non rischia al tempo stesso di essere una fabbrica di illusioni?
“Dobbiamo essere bravi noi a spiegare, come facciamo quotidianamente, che non diventeranno certo famosi come Baby Gang, ovvero come un rapper con milioni di ascolti. L’impostazione che diamo a queste attività è più di sfogo: ‘con la musica puoi raccontarci i tuoi problemi’, questo è il messaggio che passa. E tutto parte da esperienze pregresse: Baby Gang all’inizio con noi parlava pochissimo, lo abbiamo conosciuto di più attraverso le canzoni che ci faceva ascoltare”.
Altri vi danno una mano?
“Universal da un anno porta avanti dei laboratori musicali nella nostra comunità, abbiamo ottimi rapporti e collaborazioni anche con Warner. Ma ripeto: l’idea è quella di rendere la musica accessibile a tutti, di spingere i ragazzi verso la scrittura, che in tutti i casi serve, e usare questa esperienza per raccontarsi”.
Il rap che ruolo ha in tutto questo?
“È una musica orizzontale, permette di far uscire quello che si ha dentro immediatamente. Certo, per farlo a livello professionale poi serve altro, ma la forza del rap è evidente. Noi vediamo dei miglioramenti nei ragazzi che partecipano e si impegnano nei laboratori musicali”.
Vi siete mai posti il problema su che cosa viene raccontato nelle canzoni? Mi spiego: molti rapper di nuova generazione, tra cui Baby Gang, vengono accusati di essere cattivi esempi. Voi, da operatori, come vi ponete?
“Ci siamo interrogati a lungo su questo tema, nel ruolo di adulti e di operatori in un sistema penale come il carcere. E con il tempo abbiamo capito che la realtà non fa schifo perché c’è Baby Gang, ma c’è Baby Gang perché la realtà fa schifo. Alcuni di questi ragazzi vengono da contesti disperati e degradati, nel rap sfogano una rabbia. Per me condannare le canzoni non ha molto senso, quello che bisognerebbe fare è lavorare prima, alle radici del problema. È troppo facile prendersela con il testo di un brano. Che cosa facciamo noi per evitare che alcuni giovani finiscano in giri negativi? Questo è il punto”.
Ma le canzoni non sono tutte uguali.
“Sono d’accordo. Alcune più di altre meritano di essere ascoltate, anche se disturbanti, perché raccontano qualche cosa. Il punto è sempre lo stesso: bisogna contestualizzare e sforzarci di capire. Se non si porta avanti questo processo, non si riescono a comprendere molte dinamiche”.
Alcuni di loro, fra questi Baby Gang e Simba La Rue, hanno anche problemi pesanti con la legge.
"Tutto quello che ci siamo detto non giustifica i loro errori, ma l'ascolto e la comprensione, per me, rimangono imprescindibili per rendersi conto delle loro storie".