Rory Gallagher ha trovato il suo erede

Quando si scomodano i mostri sacri, la reazione è quasi sempre la stessa: mani avanti, calmi tutti, pensiamoci due volte. In Irlanda ci hanno sicuramente pensato due volte prima di accostare il nome di Dom Martin a quello di Rory Gallagher, genio indiscusso ed esponente più glorioso dell’Irish rock. Gallagher in Irlanda è – giustamente – una divinità intoccabile. Ed è proprio per questo motivo che, se “The Irish Times” paragona il suono di Dom all’inarrivabile sei corde di Rory, viene seriamente da chiedersi che cos’abbia di speciale questo trentenne della contea di Antrim.
La risposta più immediata, probabilmente anche la più superficiale, è la seguente: nella sua chitarra, nel modo in cui la suona, nelle note che ne escono ci sono tutti i demoni che il blues ha sempre esorcizzato nei secoli. Demoni che per Dom nascono dal rapporto con il padre, Micky Savage, anch’egli musicista. “La vita di mio padre non è stata facile. Ha visto gli anni più violenti dei Troubles a Belfast e ha perso i genitori quando aveva solo 10 anni. Mi manca ogni giorno, ma era un incubo vivere con lui. Beveva e fumava troppo e non avrebbe cambiato le sue abitudini per nessuno. Ma mi sento fortunato ad averlo curato nell’anno peggiore della sua malattia, l’ultimo della sua vita”. Tra le onde di un rapporto burrascoso, un faro: la chitarra che il padre gli regala quando Dom è ancora un bambino.
“La musica è come respirare. Vivo da solo, per mia scelta. L’unico modo in cui riesco a funzionare come essere umano è stando da solo. Faccio fatica a socializzare e sono ansioso. Anche da bambino, se qualcuno veniva da noi a casa prendevo la chitarra e iniziavo a suonare. Era il mio modo di dire: guardami, ti sto salutando”.
Nel 2017, uno sconosciuto Dominic Martin Savage di 27 anni sale sul palco di un golf club vicino a casa. Una delle serate open-mic a cui partecipa da anni nei locali dell’Irlanda del Nord. La vita non gli sorride, i soldi sono pochi e fatica a mantenere il figlio appena nato, Luke. “Sto cercando di non commettere gli stessi errori di mio padre, voglio il meglio per lui. Vivo con poco e l’unica ragione per cui mi interessano i soldi è migliorare la sua vita”. Quella sera, al golf club, qualcuno nel pubblico rimane colpito dal suo talento e fa una telefonata a un amico che lavora nell’industria musicale. Per Dom è la svolta.
Due anni dopo nasce il suo primo album in studio, “Spain to Italy”, applaudito anche dalla critica britannica. Da lì in poi Martin vince sei UK Blues Awards in varie categorie: best solo artist, best acoustic blues act, best instrumentalist e best album. Fino al “musicista dell’anno” di qualche mese fa. Il secondo disco, “A Savage Life”, vale un posto nella UK Blues Hall of Fame. La gioia più grande? Una telefonata dalla casa d’aste internazionale Bonhams, che gli chiede di suonare all’evento privato dedicato alla collezione di chitarre del suo eroe: Rory Gallagher.
“Rory è il mio idolo. Mi ispiro a lui come persona oltre che come musicista, cantante e cantautore assolutamente incredibile. Ha tracciato da solo la sua strada e questo lo ha reso un uomo migliore. Suonava in posti dove altri non andavano. La sua musica era viscerale e grezza. Era sé stesso. All’asta mi hanno fatto suonare le sue chitarre: tremavo”.
Nel suo ultimo album – un doppio live del 2024, “Buried alive” – c’è tutta l’essenza di Martin. Il debito nei confronti di Gallagher è evidente, soprattutto in brani come “Unhinged” o “Dixie black hand”, ma è altrettanto evidente che Dom non copia: emula. Elettrica o acustica non importa: gli riesce tutto con entrambe. “Buried alive” è un testamento, il racconto della sua storia. Ci sono le dipendenze ereditate dal padre, da cui è riuscito a disintossicarsi; ci sono gli anni di gavetta nei pub, le pinte di Guinness, i soldi raccolti nel cappello per suo figlio; ci sono le nuvole basse, le scogliere irlandesi, e un blues che bello così non si sentiva da un po’.