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Alice Cooper, il Salvador Dalí del rock: l'intervista

"Voglio sensazioni piuttosto che la perfezione", spiega l'artista presentando il nuovo album "Road"
Alice Cooper, il Salvador Dalí del rock: l'intervista

“Io il Salvador Dalí del rock? (ride, ndr) Questo è un complimento”, dice Alice Cooper con voce roca e calda dall’altra parte del telefono. Nel pieno di un’estate interamente dedicata agli appuntamenti dal vivo in Europa e negli Stati Uniti, sia con il proprio progetto che con gli Hollywood Vampires, Vincent Damon Furnier presenta un nuovo album, intitolato “Road” e disponibile da oggi - 25 agosto.

Per il suo modo di unire suggestioni horror e sperimentazioni hard rock, oltre a presentare una forte idea di teatralità e storie di personaggi fuori dall’ordinario, il musicista originario di Detroit ha plasmato con Alice Cooper una delle figure di maggior impatto e incisività nella storia del rock. Nel corso della sua ultracinquantennale carriera, Mr. Furnier ha elaborato show stravolgendo il reale con i caratteri del fantastico, come in un’opera del surrealismo con la musica dal vivo. Il cantante, quindi, ricorda ancora Salvador Dalí come uno dei suoi più grandi eroi e fonte di ispirazione, tra i miti che negli anni ha avuto la fortuna di conoscere o con cui ha collaborato. Proprio l’incontro con l’artista spagnolo, oltre a portare alla realizzazione dell’ologramma tridimensionale “First Cylindric Chromo-Hologram Portrait of Alice Cooper’s Brain”, ha lasciato un segno sulla concezione di spettacolo di Vincent Damon Furnier. “Ero affascinato da Dalí e penso ci sia molto del surrealismo nei nostri show”, sottolinea il musicista nel corso dell’intervista rilasciata a Rockol per la pubblicazione del nuovo album: “Nei nostri show presentiamo quello che io chiamo shock humor, con momenti che a sorpresa fanno ridere il pubblico. Mischiamo un po’ di West Side Story con suggestioni prese dai film horror, o tantissimi altri spunti, ed ecco Alice Cooper”.

Con circa trenta lavori di studio all’attivo nella sua intera carriera, ora Alice Cooper ha deciso di fare tesoro di tutte le esperienze della sua avventura e raccontare la vita “on the road” attraverso il nuovo “Road”, un album registrato dal vivo in studio con la sua attuale band - Ryan Roxie (chitarra), Chuck Garric (basso), Tommy Henrikson (chitarra), Glen Sobel (batteria) e Nita Strauss (chitarra) - e in collaborazione con il produttore di lunga data Bob Ezrin. È un disco di brani hard rock, con le chitarre protagoniste, in cui lo stile Alice Cooper è riconoscibile. Per sottolineare lo spirito live del disco, la tracklist include anche una nuova versione di “Road rats” da “Lace and Whiskey” del 1977 e una cover di  “Magic bus” degli Who. Tra canzoni rock and roll come “Rules of the road" e ballate come "Baby please don't go”, emergono quindi immediatezza insieme a riferimenti ai classici. Mentre il protagonista del concept non è altro che Alice.

Quali intenzioni precedono l’uscita del nuovo album “Road”?
L’idea alla base di questo album era di raccontare la vita on the road, in tour. Collaboro con una band straordinaria, molto unita, e fin dall’inizio volevo che anche i musicisti del gruppo scrivessero le canzoni con me, per discutere insieme ogni aspetto delle tournée. Allo stesso tempo, desideravo incidere un album con brani suonati e registrati dal vivo in studio. Uno degli obiettivi è quindi diventato dimostrare la bravura della mia band e incidere in presa diretta, senza sovraincisioni, senza fare prima la base e poi inserire gli altri elementi. 

Con quale tipo di spirito sono iniziate le lavorazioni di questo nuovo album, dopo il precedente “Detroit stories” del 2021? 
Il settore della musica è molto cambiato rispetto ai primi anni Settanta, quando si facevano anche due album all’anno. Più di cinquant’anni fa abbiamo pubblicato “Love it to death” e “Killer” nello stesso anno, nel 1971, poi abbiamo realizzato “School's out” e “Billion dollar babies” in pochi mesi di distanza l’uno dall’altro. Era normale. È abbastanza interessante per il modo in cui è cambiato il mondo della musica. Ora molte band non fanno nemmeno più album pensando ‘non possiamo nemmeno farci soldi’. Io, invece, faccio album per i miei fan. Mi rendo conto che, anche se fare dischi fosse ancora un modo per arricchirsi, questa idea non sarebbe il motivo per cui lavoro su un album, ma per fare musica nuova. Continuerò sempre a fare album con delle tematiche, degli sviluppi narrativi, e cercherò di scrivere le migliori canzoni che posso scrivere. Non rientrerò mai in quella categoria e non smetterò di fare album solo perché non è più un lavoro così redditizio. L’obiettivo è fare nuove canzoni, nuovi progetti da portare in scena e nuovi spettacoli. 

Secondo questa idea, quali storie e pensieri racchiude “Road”?
Attraverso “Road” voglio sicuramente raccontare cosa significa la vita in tournée, vivere lunghi periodi su un tour bus o negli hotel, e fare spettacoli ogni sera per un sacco di gente. E voglio farlo attraverso un pensiero unico. “Detroit stories” offriva un’immagine di ciò che è Detroit. Tanti anni fa, con “Welcome to my nightmare”, invece, volevo rappresentare l’incubo di Steven, un tipo di persona tra i migliori soggetti possibili. Ogni persona è diversa dalle altre, con emozioni e problemi diversi. Io scrivo molto delle persone e delle loro situazioni.

Quale idea musicale ha guidato la realizzazione del nuovo disco?
Tutti e trenta gli album che ho realizzato nel corso della mia carriera sono hard rock, basati sulle chitarre. Non metal, ma hard rock. Pensando a tutte le band che sono sopravvissute ai continui cambiamenti musicali, l’hard rock è l’unica musica che non scompare. Rolling Stones, Guns N' Roses, Aerosmith, Mötley Crüe e Alice Copper: siamo ancora in giro e siamo tutti gruppi hard rock. Non importa se passa attraverso l’hip hop, se diventa grunge o punk, il rock and roll basato sulle chitarre non passa di moda. In questo momento ci saranno giovani band chiuse nei garage che imparano a suonare hard rock, alla fine un tipo di musica elementare: affonda le proprie radici nel blues, a cui poi abbiamo fatto prendere la nostra direzione. “Road” e tutti i miei album saranno sempre hard rock. 

Al giorno d’oggi, quindi, qual è ancora l’elemento di forza del rock, di questo genere musicale e di questi suoni che si ritrova sempre in Alice Cooper?
La sua autenticità. Io non sono molto tecnologico e non mi piace quella che chiamo musica finta: voglio che la band sia in grado di suonare la musica. Non capisco perché sul palco le band debbano usare basi registrate, o l'autotune e cose del genere. Dal mio punto di vista, non è così che dovrebbe lavorare una band. Una band dovrebbe essere un'unità compatta, che suona la propria musica dal vivo anche se a volte non è perfetta. In un certo senso mi piace quando qualcosa non è perfetto. Voglio avere sensazioni piuttosto che la perfezione. Quello che cerco è una reazione del tipo: ‘ma quanto è bella questa canzone?’. Lo stesso discorso vale con gli Hollywood Vampires, con cui sono in tour al momento: non siamo precisi, ma si percepisce il valore di un brano piuttosto che la sua perfezione.

All’ascolto, “Road” sembra anche una sorta di retrospettiva della carriera e della musica di Alice Cooper. In tracce come "White line Frankenstein" si colgono riferimenti diretti a lavori passati, e "Road rats forever” è una reincisione di un vecchio pezzo.
A volte le cose si sfumano l’una con l’altra. Magari facciamo una canzone e all’improvviso sento qualcosa di “I'm eighteen” o di “Elected”. Non mi dispiace prendere in prestito da me stesso. Alla fine, tutti siamo influenzati da qualcun altro. A partire dai Beatles, per esempio, influenzati da Buddy Holly, Everly Brothers e Chuck Berry. A nostra volta, noi siamo un derivato dei Beatles, degli Yardbirds, degli Who e di molte altre cose. Ma è solo un aspetto e io non voglio forzare nulla della mia musica, voglio che sembri tutto naturale. Non voglio che una canzone suoni bene in modo forzato: le canzoni migliori sono quelle che sembrano nate in modo del tutto naturale. 

Come mai la scelta di rivisitare “Road rats” da “Lace and Whiskey” del 1977 per “Road”?
“Road Rats” è una canzone che doveva essere inclusa in questo nuovo album: tratta di temi legati alla vita on the road e, soprattutto, parla dell’entourage, di coloro che lavorano nel backstage. Senza i roadie i nostri spettacoli non potrebbero andare in scena. Volevo che anche loro ricevessero il giusto riconoscimento. Per questo, “Road rats” è adatta per il nuovo album, prodotto come “Lace and whiskey” sempre da Bob Ezrin. Il discorso vale anche per la reinterpretazione di “Magic bus” degli Who, di cui volevo fare una cover dal vivo: alla fine in “Road” abbiamo incluso la prima versione che abbiamo suonato live in studio.

Pensando al testo di “Rules of the road”, quali sono per Alice Cooper le “regole” della vita on the road?
La cosa divertente della canzone è che il personaggio della canzone è proprio Alice, che elenca a una giovane band tutta una serie di cose da fare in tour, che sono totalmente sbagliate. Verso la conclusione della canzone, il testo infatti avverte che “se segui tutte queste semplici regole, entro i ventisette anni morirai”. Seriamente invece, le regole della vita in tour da seguire suggeriscono che lo spettacolo è la cosa più importante: a un concerto ci sono 15.000 persone che hanno pagato per vederti suonare, quindi significa che la tua responsabilità è di offrire il miglior spettacolo che abbiano mai visto.Questo è quello che voglio per la mia band, ma anche negli Hollywood Vampires. E dovrebbe essere l'atteggiamento di ogni band. Non puoi sostenere questo stile di vita se sei costantemente sotto l’effetto di alcol o droghe e non sei in forma, fisicamente. Rispetto agli anni Sessanta e Settanta, quando erano tutti sballati, ora è un mondo diverso. Nessun sale sul palco strafatto.

Quali responsabilità, nei confronti della musica di oggi e dei giovani artisti, derivano dall’essere ancora, dopo oltre cinquant’anni di carriera, una delle figure di maggior impatto nella storia del rock?
Sono convinto che il rock and roll esisterà sempre e che il rock non sia morto. Al giorno d’oggi alcuni grandi nomi, sia uomini che donne, propongono spettacoli dalle grandi produzioni, ma hanno poca credibilità e autenticità. Ci sono delle eccezioni e ci sono ancora grandi show: io, per esempio, adoro andare a vedere Lady Gaga, perché è fantastica e so che è una rocker. Shakira è una rocker. Ma molti altri portano in scena spettacoli eccessivi e pomposi, finendo con l’essere solo intrattenimento, ma non sono rock. Io incoraggio sempre le giovani band ad avere una certa dose di ribellione e rock and roll. C’è bisogno di un po’ di rabbia e di follia. Credo che molte delle cose che sento alla radio non abbiano nulla di tutto ciò. Sembrano dei prodotti talmente perfetti che ascoltandoli hai solo la sensazione che sia qualcosa di già sentito prima.

Pensando a band e ad artisti di ispirazione, oltre che alle collaborazioni, qual è il segno lasciato da figure come Salvador Dalí, incontrato negli anni Settanta e principale influenza della musica e dell’idea di spettacolo di Alice Cooper?
Da ragazzo, a scuola, studiavo arte e volevo diventare un artista o dedicarmi alla scrittura creativa, non sapevo ancora cosa volesse dire fare parte di una band. È cambiato tutto quando ho sentito i Beatles e i Rolling Stones, e ho deciso che volevo fare parte di una band. Salvador Dalí, quindi, era il mio eroe, e dei miei compagni di studi, alcuni poi anche di band. Dalí era un artista fuori dagli schemi ed era strepitoso in quello che faceva. Quando ho iniziato a lavorare con lui, è stato come lavorare con i Beatles, per me, con qualcuno di davvero più grande di me. Ero affascinato da lui e penso ci sia molto del surrealismo nei nostri show. Penso che anche noi in qualche modo ci avviciniamo al vaudevillian. Nei nostri spettacoli presentiamo quello che io chiamo shock humor, con momenti che fanno ridere il pubblico a sorpresa. Mischiamo un po’ di West Side Story con suggestioni prese dai film horror, o altri spunti, ed ecco Alice Cooper. 

Con una carriera tanto prolifica, qual è il pensiero più bello legato alle figure che in qualche modo hanno incrociato e influenzato il percorso di Alice Cooper?
Per me, una delle cose più belle nell’essere arrivato dove sono, è aver incontrato tutti i miei eroi, come Beatles e Rolling Stones, che poi sono anche diventati degli amici. Quando avevo 16 anni non avrei mai pensato che sarei riuscito a parlare con un Beatle o uno degli Stones. Loro, come anche Dalí, Fred Astaire o chiunque altro. Negli anni mi è successo di conoscere ognuno di loro e molti altri: come i Rolling Stones, anche i Doors, i Led Zeppelin, erano dei buoni amici ed erano le band con cui siamo cresciuti. Ho anche capito che i propri idoli, più sono grandi, più sono persone adorabili: ricordo Elvis Presley e Frank Sinatra.

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