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Sixpm cercava l’El Dorado negli Usa: “Italians do it better”

Con Jovanotti è riuscito dove Rick Rubin si era fermato. Ora con “Puta” lancia il suo progetto.
Sixpm cercava l’El Dorado negli Usa: “Italians do it better”

È nato a Napoli, ha cercato l’El Dorado negli Usa ma poi l’oro, anzi, il (multi)platino, l’ha trovato in Italia, diventando una figura centrale in molti progetti simbolo del rap nazionale, contribuendo a definirne la svolta. Ora, mentre il suo suono conquista anche le star del pop, da Jovanotti a Elisa, Sixpm prova a vedere cosa c’è fuori la stanza dei bottoni, con un singolo in cui ci mette - se così si può dire - la faccia. “Puta”, con la partecipazione di Guè e Ghali, è il primo singolo di Andrea Ferrara, questo il vero nome del 35enne musicista, che ha appena firmato un contratto con Capitol Records Italy: “Ero andato a Los Angeles in cerca della svolta, collezionando una serie di sessioni con autori locali tramite il mio editore di allora. Il sonwriting americano della West Coast, però, non mi ha fatto impazzire”, spiega lui.

Cosa non ti piaceva?

“È molto macchinoso. Ci sono ventimila studi. Gli autori sono ogni giorno in studio a produrre con chiunque, seguendo ritmi da fabbrica. Pensi di avere a che fare con dei fenomeni, poi scopri che magari è gente che ha sciacchiato solo un tasto in un disco di Jay-Z. A Los Angeles avrò fatto una trentina di sessioni in cui non è venuto fuori niente di interessante. Il sistema delle sessions combinate tra autori e produttori è una cosa che non mi stimola. Però ho frequentato fino a pochi mesi fa anche New York, dove ho vissuto per otto anni. Lì è tutto diverso”.

In che senso?

“A New York le cose te le devi sudare. Entrare in certi circuiti non è facile. Ho avuto la fortuna e il privilegio di conoscere hitmaker come Sidney Swift e Bibi Bourelly, gente che ha lavorato con Nicki Minaj, Beyoncé e Rihanna. Da quegli incontri sono nati degli spunti interessanti che sono finiti nei pezzi di Rose Villain, quando cantava ancora in inglese”.

Il sistema delle sessions collettive ha preso piede già da tempo anche in Italia: non ti è mai capitato di partecipare a una sessione del genere?

“Sì. Ma in Italia, a differenza di Los Angeles, le sessioni sono meno macchinose. E c’è più spontaneità. Mi sono trovato molto bene con Davide Simonetta e Paolo Antonacci, che guidano un team di lavoro rodato e efficiente”.

Cosa vuoi dimostrare con “Puta”? Non ti basta più stare nella stanza dei bottoni del rap italiano?

“Volevo avere un progetto tutto mio, a trecentosessanta gradi. Quando sono al servizio degli artisti, devo entrare nel loro mondo. Stavolta volevo che fossero loro a salire a bordo, scoprendo il mio. Riesco a definire in modo più accentuato i miei gusti”.

Quali sono?

“Utilizzo tanto le chitarre. E in fase di produzione cerco di rimandare il più possibile l’intervento del pc, concentrandomi su strumenti suonati ‘in carne ed ossa’”.

Suoni?

“Sì. Chitarra, basso e tastiera”.



Autodidatta?

“Sì, infatti non sono un fenomeno (ride). Però cerco di suonare tutto io, nei progetti che porto avanti. Chiamo qualche professionista solo se ci sono dei virtuosismi particolarmente complicati da registrare”.

Tipo?

“Nell’outro di ‘Lamette’ di Rose Villain con Salmo per registrare la parte di pianoforte ho chiesto aiuto a Riccardo Puddu, che collabora stabilmente con Salmo”.

Come hai scelto Guè e Ghali per “Puta”?

“Guè è uno degli artisti con cui ho lavorato di più negli anni. È stato il primo a credere in me più di dieci anni fa: non ero nessuno e lui mi spalancò le porte della scena. Quando ho cominciato a pensare chi coinvolgere, il suo è stato il primo nome che mi è venuto in mente. Ghali lo avevo incontrato l’anno scorso al festival LoveMi di Fedez. Nel backstage gli avevo parlato di ciò che avevo in mente di fare e l’avevo visto incuriosito. Ho rimesso in piedi il duo di ‘Follow me’, facendo fare pace ai due, che negli ultimi tempi si erano scambiati qualche frecciatina”.

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Chi metteresti sul podio dei migliori produttori italiani?

“Al primo posto Dat Boi Dee, il produttore di Geolier. Al secondo Drillionaire. Al terzo Andry The Hitmaker”.

Da napoletano come te la spieghi la vivacità della scena napoletana di questi anni? È sempre stata così attiva, solo che ora c’è un interesse mediatico maggiore?

“È così. Vivace lo è sempre stata: adesso ci sono i riflettori accesi e quando una cosa è figa, se ne accorgono tutti. È cresciuto in generale tutto il mercato urban”.

“I love you baby” di Jovanotti era originariamente prodotta da Rick Rubin, ma la versione originale non è stata propriamente un successo. Poi ci hai rimesso mano tu e il pezzo è diventata una hit da triplo Disco di platino. Cosa hai cambiato?

“Conosco bene il mercato italiano. Rubin è insuperabile. Un maestro assoluto: Dio. Non è che la sua produzione non andasse bene, solo che non seguiva schemi, non pensava al mercato. Jovanotti mi ha detto che secondo lui aveva un altro tipo di potenziale: l’ho aiutato a esprimerlo”.



Italians do it better?

“Sometimes (ride)”.

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