Tori Amos spiegata alla Generazione Z
Quando nel 1991 l’allora ventottenne Myra Ellen Amos si presentò negli uffici dell’Atlantic per far ascoltare ai discografici la prima versione di quello che sarebbe stato “Little earthquakes”, il suo - poi acclamatissimo - album d’esordio, quelli scossero la testa: “Non ci siamo. A nessuno interessa una ragazza con un piano”. Trent’anni più tardi, a un giornalista che le chiede se il suo impatto sul pop-rock degli ultimi tre decenni sia stato in qualche modo sottovalutato, Tori Amos - attesissima domani dai fan italiani in concerto al Teatro degli Arcimboldi di Milano: la data è un recupero di quella originariamente prevista il 24 febbraio 2022 - risponde lapidaria: “Tutto quello che so è che ci sono molti più artisti che suonano il pianoforte di quanti ce ne fossero nel 1992”. Nel mezzo ci sono stati sedici album, una hit come “Cornflake girl”, considerata un piccolo grande spartiacque nella storia del cantautorato rock femminile, premi su premi e oltre 15 milioni di copie vendute a livello mondiale: in un percorso artistico mozzafiato e sempre all’insegna delle sorprese e dei (anche bruschi) cambi di rotta, Tori Amos è passata dal successo commerciale a una musica che affronta seri problemi relativi al genere femminile, aprendo la strtada a una generazione di giovani popstar. Dalla sua rappresenzazione dell’aggressione sessuale in “Me and a gun” - la canzone di “Little earthquakes” in cui la cantautrice, figlia di un reverendo metodista e di un'insegnante di origini cherokee, raccontò senza giri di parole di uno stupro subito pochi anni prima - al suo album dopo l’11 settembre “Scarlet’s walk”, passando per il suo musical teatrale femminista “The light Princess”, il suo lavoro non ha mai evitato di mescolare il personale con il politico. Facendo scuola.
All'inizio degli Anni '90, il suo approccio crudo e gli argomenti scomodi che trattava nelle sue canzoni - masturbazione, mestruazioni, suicidio, violenza sessuale - spinsero la critica ad appiccicarle addosso l’etichetta di cantautrice sui generis: una difficile da gestire, da raccontare. In rete c’è ancora uno dei primi articoli che il New Musical Express dedicò all’artista statunitense. Cominciava così: “È pazza al 100%”. Già in “Little earthquakes” Tori Amos trattava il femminismo come una delle poche ideologie in cui trovare conforto: un tema che sarebbe stato una costante, nella sua discografia, tra critiche al mondo cattolico (come “Crucify”, contenuta proprio nel disco del ’92) e vicende personali (l’aborto naturale che nel ’98 avrebbe ispiratio l’album “From the Choirgirl Hotel”). La svolta arrivò due anni dopo il debutto. Complice una hit che si sarebbe rivelata croce e delizia di una carriera fin troppo movimentata (ha spaziato dal rock all’alternativa, dall’elettronica alla musica classica, vincendo nel 2012 lil premio ECHO Klassik per l’album “Night of Hunters”, in cui - mettendo a frutto l’esperienza prematura in uno dei conservatori più prestigiosi d’America, il Peabody Conservatory di Baltimora, al quale fu iscritta quando aveva solo 5 anni - si ispirò a temi di musica classica che coprivano oltre quattro secoli).
Stiamo parlando, naturalmente, di “Cornflake girl”, singolo di lancio nel 1994 dell’album “Under the pink”: un successo clamoroso, che si spinse nella top ten delle classifiche britanniche e statunitensi, consacrando Tori Amos come uno dei talenti più cristallini, affascinanti e anomali del pop-rock dei primi Anni ’90. Nei versi di quella canzone, enigmatica e criptica, una sorta di manifesto, la cantautrice divideva le donne in due categorie: le donne uvetta, di mentalità aperta; e le conflake girls, quelle piene di pregiudizi e con poca apertura mentale. “Non sono mai stata una cornflake girl”, rivendicava lei, che raccolse l’eredità gigantesca di Kate Bush - che già da tempo era sparita dai radar, continuando a farsi sentire dopo “Wuthering Heights” e “Babooshka” con dischi come “Hounds of love”, “The sensual World” e “The red shoes”, ma senza metterci la faccia - e si preparava a inoltrarla alle colleghe che di lì a poco sarebbero emerse sulla scena internazionale.
Da Florence and the Machine - andate ad ascoltare, se non lo avete già fatto, la cover della stessa “Cornflake girl” che Florence Welch ha registrato ai RAK Studios di Londra un paio di anni fa - a Imogen Heap: la lista delle protagoniste del cantautorato alternativo femminile che devono qualcosa a Tori Amos è abbastanza lunga. Taylor Swift, solo apparentemente distante anni luce dal suo mondo, omaggio la cantautrice statunitense in tempi non sospetti: era il 2011 - l’anno a cavallo tra “Speak now” e “Red”: all’epoca la principessina del folk americano di nuova generazione giocava ancora con un’immagine tutta acqua, sapone e chitarra acustica, prima della svolta elettropop - quando la Swift sorprese i fan suonando dal vivo un brano che non avevano mai ascoltato. Sicuramente non nei dischi della loro beniamina: era una cover di “A sorta fairytale”, singolo che Tori Amos pubblico nel 2002 come prima anticipazione dell’album “Scarlet’s walk”, quando Taylor aveva appena 12 anni. In qualche modo, è come se Taylor arrivò a un solo grado di separazione dalla Amos. “Potrei essere la loro mamma. Rispetto molto quello che fanno”, ha detto la cantautrice delle sue eredi (non fu così tenera quando nel 2009 massacrò Lady Gaga, alle prese con le sue prime hit, da “Poker face” in giù: “Non si può definire un’artista una che cavalca l’onda dei trend stagionali. È una meteora”, sentenziò). Fiona Apple è definita da molti come la sua erede naturale: “È una delle più grandi cantautrici in circolazione, il mondo ha bisogno della sua musica”, ha commentato a proposito della cantautrice newyorkese. A sancire il passaggio di consegne manca solo un duetto tra le due, che però non è ancora arrivato: ad abdicare, Tori non ci pensa affatto.