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Agnelli: “Bowie non è intoccabile, la sua musica è per tutti”

Debutta in italia“Lazarus”: “Un'opera rock. Le cover band hanno rovinato la capacità di analisi”
Agnelli: “Bowie non è intoccabile, la sua musica è per tutti”

Arriva in italia “Lazarus”, uno degli ultimi lavori di David Bowie. Il musical debuttò a fine 2015, pochi giorni prima della scomparsa del cantante: che assistette alla prima, e fu la sua ultima apparizione pubblica. Lo show ha già avuto diverse versioni internazionali: quella italiana debutta la prossima settimana, il 22 marzo, al Teatro Bonci di Cesena, con la regia di Valter Malosti, che già in passato ha lavorato con il drammaturgo Enda Walsh, coautore dell'opera.

Nel ruolo di Tomas Newton, "L'uomo che cadde sulla terra", c'è Manuel Agnelli, che prenderà il posto che nella prima versione fu di Michael C. Hall, l'attore di "Dexter". Agnelli ha già lavorato per il cinema e in TV, ma è la sua prima volta da attore in teatro: a Rockol racconta di avere accettato perché "è il progetto originale di Bowie ed Enda Walsh, ma con dello spazio per personalizzarlo". Sarà accompagnato sul palco, tra gli altri, dall'ex vincitrice di X Factor Casadilego e da una band che comprende Jacopo Battaglia (Zu, Bloody Beetroots), Stefano Pilia (Afterhours, Rokia Traoré), Giacomo Rossetti (Negrita e recentemente nella band solista di Agnelli) - qua il cast completo.

Ma non aspettatevi delle cover, anzi: Agnelli, racconta a Rockol, è contro la "cultura delle cover band", basata sulla performance fine a se stessa. E non aspettatevi neanche la leggerezza di Broadway: "Lazarus" è un racconto che parla di vita e di morte, uno spettacolo intenso, ispirata dal romanzo fantascientifico “The man who fell to earth” di Walter Tevis, in cui il protagonista è un extraterreste che non invecchia. Al tempo le recensioni sottolinearono che era troppo Bowie per Broadway e troppo Broadway per Bowie: la versione italiana, sotto la supervisione di Walsh, proverà a eliminare un po' della leggerezza del musical classico. Punterà su quella che Agnelli chiama "opera rock", ovvero "una visione di jazz contemporaneo e di avanguardia che è quella dell’ultimo Bowie", spiega.
E intende ribadire che Bowie è sì difficile da interpretare, ma non è intoccabile: "Ha fatto la sua musica per tutti, soprattutto con questo musical".

Come è nata la tua partecipazione a questo progetto?
Me l’hanno chiesto, semplicemente. Valter Malosti mi ha contattato, spiegandomi che è il progetto originale di Bowie ed Enda Walsh, ma con dello spazio per personalizzarlo: sicuramente dal punto di vista della regia, ma anche per alcuni contenuti testuali, e sempre sotto l’approvazione di Walsh. Dal punto vista musicale c’era la volontà di renderlo leggermente meno Broadway: quella dimensione è lontana dalla visione di Malosti, ma anche da quella di Bowie, a detta di Walsh.

Cosa ti ha colpito di “Lazarus”?
È un testo pregno e scuro, che parla di trascendenza. È uno spettacolo che rimane brillante, ma non ha niente a che vedere con la leggerezza quasi ridanciana e lo spirito di quel tipo di musical. Io con Broadway ho poco a che fare, non mi interessa: la nostra versione  è diventato un’opera rock, teatro con canzoni, più che un musical.

Come è stato adattato per l’italia?
Sono state apportate modifiche non enormi a livello di arrangiamento, ma sostanziali a livello di suono. Nel testo qualcosa è inevitabilmente cambiato nella traduzione, per renderlo credibile in italiano. Nella musica abbiamo cercato, per così dire, di rendere meno 'sciocchini' certi arrangiamenti, per avere una visione di jazz contemporanea e di avanguardia che è quella dell’ultimo Bowie. Tutto sempre sotto la supervisione di Walsh, quindi con un punto di riferimento forte.

Qual è stato il tuo contributo tuo e quello della band? 
La band ha elementi di grande personalità musicale, e io ci metto del mio. Per me fare una cover uguale all’originale non ha senso. Non è uno spettacolo fotocopia o di Manuel Agnelli che fa cover: è una reinterpretazione, una dimensione già presente nella versione originale.

È ovviamente impossibile essere Bowie: abbiamo molto rispetto nei confronto delle sue intenzioni, ma poi c’è la nostra sensibilità. Per fare un esempio, anche gigante: quando vai a vedere Verdi alla Scala o un concerto di Beethoven sono delle reinterpretazioni, non la versione degli autori, che non ci sono più. 

C’è chi pensa però che Bowie sia intoccabile.
So che c’è una falange di integralisti che la pensa così, ma Bowie ha fatto la sua musica per tutti, soprattutto con questo musical.

Tu hai mai cantato Bowie prima?
Mai in pubblico: è un personaggio talmente conosciuto e impegnativo che la sua forza ti mette di fronte a rischi mostruosi. Con la band in un concerto richiederebbe una reinterpretazione ancora più personale, mentre questo è uno spettacolo di David Bowie: farlo seguendo seguendo un suo progetto, per me, ha senso. Poi paradossalmente mi viene più facile cantare lui di altri perché abbiamo una tessitura vocale molto simile.

Il palco di un concerto rock permette più libertà rispetto a quello teatrale. Come ti sei preparato e adattato?
È molto più difficile e molto stimolante, sicuramente più complesso rispetto al recitare in un film, innanzitutto perché è live. Poi ci sono più elementi rispetto ad un concerto: sono codificati, sono scritti e sono tantissimi; ho studiato, lavorato sulla memoria, sulle battute, legandole a movimenti e oggetti. Ma non ti senti prigioniero, anzi. È come quando canti una canzone in un tour: ogni sera è diversa, la tua emozione è diversa, la reazione del pubblico è diversa. Anche nel teatro non è mai tutto uguale, e più si va avanti più si ha padronanza e si riesce ad interpretarla. 
Poi, ovviamente, imparare le canzoni di un altro richiede uno sforzo ulteriore per non ingabbiare la tua personalità e non sembrare un poveraccio da cover band. La cultura delle cover band ha rovinato la capacità di analisi delle persone.

Credi che a questa “cultura delle cover” abbiano contribuito anche i talent come X Factor, una macchina che tu conosci bene?
I talent derivano da questa cultura, le cover band esistono da molto prima di questa generazione di talent. Nel 1979 Johnny Rotten partecipò ad un programma della BBC che si chiama “Jukebox”, poco dopo la fine dei Sex Pistols e con i P.I.L. appena formati: lui fece il giudice, a modo suo, alzando un cartello “win” o “miss”… 
Ma al di là dei talent, prima ci sono stati anni di cover band dove i locali facevano suonare solo gruppi che facevano materiale non proprio e il più possibilmente fedeli all’originale.

C’è chi suona cover di professione, anche con tour internazionali…
Ci sono cover band dei Genesis o dei Pink Floyd che arrivano a livelli di dettaglio maniacale. Non è che non sia possibili che esistano queste cose, ma il mio parere è che, dal punto di visto del messaggio siano una cosa brutta. Certo, se non mai visto una di queste band… ma non sono loro, quindi cosa te ne frega? Sinceramente niente. 

Perché credi che le cover band siano, per così dire, problematiche?
Alla fine questa cultura delle cover ha prodotto delle distorsioni nell’analisi della musica in generale: diventa tutta performance, gente che pensa di essere un grande musicista perché riesce a replicare quello che qualcuno faceva 40 anni fa. Oggi si pensa che un bravo cantante o un bravo musicista sia chi fa salto in alto, ma questo non ha nulla a che vedere con la creatività.

Tornando allo spettacolo: la versione americana, come per gli spettacoli di Broadway, ebbe un “cast album” con le registrazioni dei brani dello spettacolo.  Pensi potrebbe succedere anche a quella italiana, con una registrazione delle vostre versioni?
Non lo so, è prematuro. Le 66 date sono praticamente tutto esaurite, quindi lo spettacolo sarà sicuramente rilevante. Incidere le canzoni potrebbe essere interessante per i musicisti che fanno parte di questa band, ma ovviamente ci sono altri parametri da valutare.

Andate avanti fino a giugno. Quali sono i tuoi progetti, dopo lo spettacolo?
Sto ancora decidendo, devo ancora capire cosa fare, se non il fatto che in autunno vorrei mettermi a finire di scrivere qualcos’altro di mio. 

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