8 marzo: otto donne cantate da Fabrizio De André

LA CANZONE DI MARINELLA
Musica e parole di Fabrizio De André
Fabrizio è coetaneo di Maria Boccuzzi, la prostituta adolescente di origine calabrese che nel 1953 viene uccisa con un colpo di pistola e gettata nel fiume Olona. La notizia, letta di sfuggita su un giornale locale, scatena lo sconforto di De André che compone "La canzone di Marinella" per cercare di “reinventarle la vita e addolcirle la morte”.
Quella canzone resterebbe confinata sul lato B di un 45 giri se un giorno del 1967 Mina («La sua voce è un miracolo» riconosce Fabrizio) non decidesse di cantarla in prima serata Rai, nel programma "Canzonissima".
«Ha truccato le carte del mio destino» ricorda De André. «Avevo già scritto una ventina di canzoni in sette-otto anni e, senza quella esibizione di Mina e i proventi che mi arrivarono dalla Siae, avrei completato gli studi e sarei diventato un pessimo avvocato. Alla fine è stato un bene per i miei potenziali assistiti». E per la storia della musica e della poesia italiana.
"La canzone di Marinella" è una ballata ipnotica su un testo dalle rime comode ma fiabesche: vera-primavera, bella-stella, dolore-amore, scorta-porta, cappello-mantello, ragione-aquilone, belli-capelli, stanchi-fianchi, sorrisi-fiordalisi, stelle-pelle, morta-porta, cose-rose. Una favola senza lieto fine come spesso succede nella realtà, con la povera ragazza strappata al feroce destino della cronaca nera, della solitudine, della tragedia per essere adagiata su un letto di sentimenti ricambiati da un principe inconsolabile che busserà "cent’anni ancora alla tua porta”.
Trent’anni dopo, Mina e De André, le due voci più belle della nostra canzone, ricanteranno Marinella “rivestita” con un abito jazz e Fabrizio confesserà: «Ho sempre amato questa ballata, perché è un perfetto equilibrio tra testo e musica. È una canzone napoletana scritta da un genovese».
All’inizio però il brano resta nell’ombra: Fabrizio lo compone nel 1962 e solo due anni dopo viene pubblicato dalla Karim, addirittura come lato B di "Valzer per un amore" e con il titolo sbagliato sull’etichetta ("La ballata di Marinella"). Poi diventa lato A, ne viene corretto il titolo, è inclusa nell’album di Mina del 1967 "Dedicato a mio padre" e, l’anno dopo, apre il "Volume 3" e la grande carriera di De André.
Qualcuno l’ha inserita tra i cinquanta brani più deprimenti del pop italiano con la motivazione: “Per tutta la canzone stiamo seguendo un carro funebre”. Eppure è l’atto di nascita del successo di De André.
LA CANZONE DI BARBARA
Musica di Fabrizio De André e Gian Piero Reverberi, parole di Fabrizio De André
Siamo nel 1967, Paolo VI richiama i fedeli alla “santità coniugale”, Fabrizio De André risponde con "La canzone di Barbara", “la bocca infedele” che sa “di fragola e miele”, la passione che non trova pace, il sentimento e il matrimonio “differiti”, il perdono evangelico perla peccatrice: “Lei sa che ogni letto di sposa / è fatto di ortica e mimosa / per questo ad un’altra età / Barbara /l’amore vero rimanderà / Barbara”. Una canzone dolente, fragile, che esalta la voce di Faber, con doppia dedica: a
Barbara Rombi Serra, la fotografa “ufficiale”, o forse a un’altra Barbara, “fidanzatina con cui si andava in torpedone ad amoreggiare a Camogli”.
La musica è quasi accademica, da metodo di chitarra classica, con qualche colpo di armonica e di archi, ma la voce di Fabrizio rende il brano morbido, struggente, emozionante, inestinguibile. La Bluebell la propone come lato A del 45 giri con "Carlo Martello" ma ritira immediatamente il disco perché "La canzone di Barbara" viene giudicata troppo debole, così Re Carlo sale sul trono della facciata “titolare” e sul retro spunta "Il testamento". Ma è un errore perché "Barbara" si conserva come uno dei brani più dolci e trasgressivi di tutto De André.
BOCCA DI ROSA
Musica di Fabrizio De André e Gian Piero Reverberi, parole di Fabrizio De André
L’enciclopedia Treccani, la stessa che De André citerà nella canzone "Un matto", l’ha sdoganata come sostantivo: Bocca di Rosa significa metaforicamente prostituta, “dal titolo di una canzone di Fabrizio De André del 1967”. E così «la Repubblica» riporta in cronaca: «In questa boccaccesca novella dei nostri tempi, le Bocche di Rosa si sono moltiplicate e non sono arrivate col treno ma con un pullman partito da Kiev». E il «Corriere della Sera» nelle pagine di economia: «Bocca di Rosa non paga le tasse perché ciò che guadagna vendendo il proprio corpo non può essere considerato reddito».
Bocca di Rosa, la “schifosa che ha già troppi clienti / più di un consorzio alimentare” secondo le bigotte comari del villaggio, diventa una sorta di messia che “portò l’amore nel paese” e che, al momento di partire, viene salutata con commozione: “Alla stazione c’erano tutti/ dal commissario al sagrestano / alla stazione c’erano tutti / con gli occhi rossi e il cappello in mano”. Ma lei è pronta a “benedire” altri peccatori “alla stazione successiva” dove c’è “molta più gente di quando partiva / chi manda un bacio chi getta un fiore / chi si prenota per due ore”, e tra questi perfino il parroco.
Una mazurka irresistibile che sbertuccia i moralismi, “l’ordine costituito” e che, pur ispirata da Brassens sia perla musica sia per il testo (ricorda la Brave Margot che destabilizza i maschi di un intero paese fino alla vendetta atroce delle mogli), è l’unica canzone che potrebbe entrare senza problemi nel repertorio del poeta-chansonnier. De André riconoscerà che "Bocca di Rosa" lo rappresenta, insieme ad "Amico fragile" e a "Jamin-a", più di ogni altra sua canzone. Anche per questo Luca Facchini, il regista dello sceneggiato "Il principe libero" (il titolo richiama la citazione del pirata Samuel Bellamy – “Io sono un principe libero e ho altrettanta autorità di fare guerra al mondo intero quanto colui che ha cento navi in mare” – inserita nella busta interna dell’album "Le nuvole"), dedicato alla vita di De André e trasmesso dalla Rai in due puntate nel febbraio 2018, sceglie proprio "Bocca di Rosa", nella versione originale dell’ultimo concerto di Faber, mentre tutti gli attori (compreso Luca Marinelli che interpreta l’artista) si radunano per ascoltarlo in emozionante silenzio.
Il mistero avvolge ancora il personaggio di Bocca di Rosa, che pare abbia un nome e un cognome, Liliana Tassio, morta a 88 anni nel giugno 2010 a Sampierdarena. Fabrizio garantisce di avere descritto una situazione realmente accaduta nel 1962, quindi “Lilli” ha 40 anni all’epoca, non al “paesino di Sant’Ilario” ma alla stazione di Nervi, dove Bocca di Rosa sbarca portando “l’amore” nel paese. Fabrizio conferma: «Lei lo faceva per passione, non per denaro».
SALLY
Musica e parole di Fabrizio De André e Massimo Bubola
Quarant’anni esatti prima che Paolo Giordano ci raccontasse ("Divorare il cielo", 2018) dell’esplosione dell’istinto, del sesso e della violenza, De André ci presenta Sally, riprendendola quasi integralmente da una ballatina popolare inglese che si apre così: “Mia madre disse non devi mai giocare / con gli zingari nel bosco / se lo facessi direbbe: ragazza cattiva e disobbediente”. Con Bubola escogita una musica da carillon nascondendoci una storia feroce di fuga e follia. Stanco delle raccomandazioni materne, il giovane protagonista si emancipa e parte per il suo viaggio perverso, ispirato dalla zingarella Sally “col suo tamburello” a richiamare un’estasi sciamanica, senza esitazioni né pentimenti: “Dite a mia madre che non tornerò”. Si imbarca in groppa al suo pesciolino, “d’oro” perché promette meraviglie, “cieco” perché non sa ancora che strada prendere. La vita non si dimostra lucente.
Il primo incontro è quello con Pilar, riferimento alla donna di "Cent’anni di solitudine" di Marquez che vivrà fino a 140 anni dopo aver dato alla luce molti figli con molti amanti. Qui le Pilar, “del mare” e “dei meli”, sono prostitute eroinomani. E lui, il nostro protagonista, si innamora di una di loro e la uccide per gelosia: “Bocca sporca di mirtillo, un coltello in mezzo ai seni… / mi guardai nello stagno, l’assassino si era già lavato / dite a mia madre che non tornerò”. La favola-incubo prosegue con il
re dei topi, riferito al racconto ottocentesco di Hoffmann, "Lo Schiaccianoci e il re dei topi", ripreso da Alexander Dumas padre, quello del "Conte di Montecristo" e dei "Tre moschettieri", e messo in musica peril celebre balletto da Çaikovski. Il re dei topi ha sette teste e sette corone e viene ucciso dallo Schiaccianoci che regala i diademi a Maria, una bambina che diventa così regina delle bambole. De André e Bubola ci ricamano e trasformano le bambole in prostitute e il sorcio sovrano nel loro protettore: “Seduto sotto un ponte si annusava il re dei topi / sulla strada le sue bambole bruciavano copertoni / sdraiato sotto il ponte si adorava il re dei topi / sulla strada le sue bambole adescavano i signori”. Straordinaria la capacità di De André di rendere tutto suo, con tragicità e dolcezza, anche quando di suo c’è poco.
FRANZISKA
Musica e parole di Fabrizio De André e Massimo Bubola
Giù le mani dalla donna del brigante: è questa la storia di "Franziska", raccontata a De André da uno dei suoi carcerieri e adattata su unsinuoso ritmo di calipso, che intriga tanto Bubola. «I miei guardiani» racconta Fabrizio a «l’Espresso», «mi parlavano dei vari Mesina come degli eroi, l’equivalente di Billy the Kid. Franziska è la donna di un bandito che si è dato alla macchia, tanto che viene chiamato “marinaio di foresta”.
Questa donna vive nel terrore, tra difficoltà sentimentali e umane impossibili, ai balli nessuno la può stringere, perstrada nessuno può avvicinarla e parlarle». Il destino è la doppia solitudine: quella di Franziska “stanca di ballare / con un uomo che non ride e non la può baciare” e quella del Graziano Mesina di turno, il leggendario bandito a cui Giangiacomo Feltrinelli nel 1968 voleva affidare un esercito per trasformare la Sardegna in una “Cuba del Mediterraneo”. Così il brigante se ne sta nascosto in qualche caverna “senza luna, senza stelle e senza fortuna” a pensare alla sua Franziska: “Questa notte dormirai col suo rosario stretto intorno al tuo fucile” mentre perla povera fanciulla c’è solo la speranza di imbattersi in qualche ignaro sventurato: “L’altro giorno un altro uomo le ha sorriso per la strada / era certo un forestiero che non sapeva quel che costava”.
JAMIN-A
Musica di Mauro Pagani, parole di Fabrizio De André
Fabrizio ha dedicato una canzone a Dori Ghezzi, ma nemmeno lei sa qual è, non gliel’ha mai confessato. «Spero sia 'Jamin-a', la compagna che ciascun marinaio spera di incontrare in ogni porto dopo le spericolate avventure in mare. Sono tante storie in una storia e in fondo anche la nostra è stata così» rivela Dori descrivendo la canzone più sensuale, perfino erotica (“quasi hardcore” la definisce l’autore), del repertorio di Fabrizio. Lui però la nasconde così: «Jamin-a è un’amica algerina. Tutti quanti ma soprattutto la stampa più retriva hanno detto che è una prostituta ed è invece una splendida compagna di viaggio. Ce ne fossero di Jamin-e! È una Bocca di Rosa vista attraverso un’esperienza personale».
“Lengua ’nfuega Jamin-a / lua de pelle scûa / cu’a bucca spalancà / morsciu de carne dûa / stella neigra ch’a lûxe / me veuggiu
demuâ / ’nte lûmidu duçe / de l’amë de teu arveà / ma seu Jamin-a / ti me perdunié /si non riüsciò a ésse porcu / cumme i teu pensë” (“Lingua infuocata Jamina / lupa dalla pelle scura / con la bocca spalancata / morso di carne dura / stella nera che illumina / mi voglio divertire / nell’umido dolce / del miele del tuo alveare / sorella mia Jamina / mi perdonerai / se non riuscirò a essere porco / come i tuoi pensieri”).
Il racconto prosegue, accompagnato da ritmi e strumenti esotici, in un abisso di passione dove la “sultan-a de e bagascie” sfodera tutta la sua arte, più perversa che amatoria, fino alla resa: “E l’urtimu respiu Jamin-a /regin-a muaé de e sambe / me u tegnu pe’sciurtï vivu / da u gruppu de e teu gambe” (“E l’ultimo respiro Jamina /regina madre delle sambe / me lo tengo per uscire vivo / dal groppo delle tue gambe”). «Mi sono nascosto dietro il dialetto genovese» ammette De André, «perché certe parole, che in italiano hanno un significato fortemente volgare, qui perdono questa connotazione». Mauro Pagani segue la voce sinuosa di Fabrizio con l’oud, il liuto arabo, Mario Arcari lo rimbecca con lo shanai, una doppia ancia turca, mentre il percussionista Walter Calloni batte sul bendir, il tamburo di pelle di pesce dotato di corde di risonanza che creano un esotico effetto di rullante. Il primo disco etnico della storia è suonato paradossalmente da una formazione interamente italiana, se si esclude il francese François Bedel che percuote il darabouka, bongo di origine ottomana.
PRINÇESA
Musica e parole di Ivano Fossati e Fabrizio De André
Tre di riflessioni, tre di lavoro e sono ancora sei anni di attesa. Poi, è già settembre 1996, arriva "Anime salve", uno schiaffo che gli italiani ricevono volentieri: primo posto tra gli album più venduti e triplo disco di platino con la Ricordi che mette sotto contratto Fabrizio per un nuovo disco da pubblicare entro il 2000, che non si farà mai. Ci sono tre perfezionisti a lavorare, litigare e contendersi parole, musica, strumenti e arrangiamenti: Fabrizio De André, Ivano Fossati e Piero Milesi. L’ultimo lavoro in studio di De André per molti è stato anche il migliore.Indubbiamente i testi («Al 90 per cento scritti da Fabrizio, con qualche idea e intuizione mia» riconosce Fossati) appartengono alla narrativa di spessore assoluto ma c’è anche la musica che assomiglia molto a Ivano Fossati(«Il 90 per cento è mia con qualche contributo di Fabrizio»), così etnica, raffinata, a volte forse brinosa, senza la concessione del pianoforte che Fossati avrebbe voluto inserire e che De André gli boccia perché non c’entra niente con gli umili della solitudine, filo conduttore delle nove canzoni del disco.
L’avvio è traumatico, con echi soffusi di strada interrotti dall’inesorabile scansione vocale di Fabrizio: “Sono la pecora sono la vacca / che agli animali si vuol giocare / sono la femmina camicia aperta / piccole tette da succhiare”. È l’incipit di "Prinçesa", vera storia di un transessuale che, a dispetto del nome nobile, Fernandinho Farias de Albuquerque, cresce di stenti e abusi nelle campagne brasiliane, si rimette in gioco come Fernanda prostituendosi in Europa, prima in Spagna, poi a Milano e Roma, dove finisce in carcere per abuso di droga e tentato omicidio verso la protettrice che non la paga il giusto. A Rebibbia conosce l’ex brigatista Jannelli che l’aiuta a scrivere il romanzo "Princesa", uscito nel 1994 perla casa editrice di Renato Curcio, Sensibili alle Foglie. Fabrizio si ispira proprio a questo libro per confezionare l’apertura di "Anime salve" e della sua galleria di solitudini.
«I transessuali, che preferisco chiamare transgeneri, provano un doppio disagio, quello di accordare il corpo maschile con lo spirito femminile e quello di farsi accettare dagli altri. Questa è la solitudine da emarginazione» conclude proprio lui frequentatore di prostitute e travestiti ai tempi di "Via del Campo", che può offrire la più feroce solidarietà: “E io davanti allo specchio grande / mi paro gli occhi con le dita / a immaginarmi tra le gambe / una minuscola fica”.
Il tormento è da esorcista: “Perché Fernanda è proprio una figlia / come una figlia vuol far l’amore / ma Fernandinho resiste e vomita / e si contorce dal dolore”. Gli affari vanno bene, la stessa protagonista nella realtà si stupisce di quanti clienti, soprattutto milanesi, apprezzino la trasgressione, così arrivano i soldi che le consentono di pagarsi l’eroina e l’operazione: “E allora il bisturi per seni e fianchi / una vertigine di anestesia / finché il mio corpo mi rassomigli / sul lungomare di Bahia”. E mentre “Fernandinho mi è morto in grembo” nasce Fernanda, “bambola di seta”. “A un avvocato di Milano / ora Prinçesa regala il cuore / e un passeggiare recidivo / nella penombra di un balcone”.
I diciassette strumenti calati nell’arena, dalla chitarra classica di Ascolese alla fisarmonica cromatica di Sàndor Kuti, dalla batteria di Ellade Bandini al violoncello di Piero Milesi, si interrompono d’improvviso ed entrano tre voci recitanti che declamano trentadue immagini in lingua madre portoghese che, come spiega Fabrizio, sono «il riepilogo dei passaggi fondamentali della vita della protagonista, un elenco di gioie e sfortune incontrate durante la metamorfosi».
Si passa così attraverso la campagna, la scuola, la vergogna, la gonna, lo specchio, il rossetto, la paura, la strada, le macchine, la polizia, la stanchezza, la dignità, la sfortuna, le botte, le carezze, lo schifo, fino alle ultime due voci: “a formusura, viver”: la fortuna, vivere. Per poco. Fernanda Farias de Albuquerque viene rimpatriata in Brasile e, a 37 anni, si suicida.
HO VISTO NINA VOLARE
Musica e parole di Ivano Fossati e Fabrizio De André
«Una volta un cacciabombardiere passò radente e Fabrizio venne sbalzato a terra e svenne, le nonne gli diedero un cognac per rianimarlo».
La testimonianza è di Nina Manfieri, compagna di giochi e altalena nelle campagne astigiane al tempo della guerra. È lei la Nina del ricordo, dell’emancipazione dall’infanzia e da un padre padrone, della solitudine di fronte al mondo e al destino. Uno dei momenti sublimi del percorso di De André, accompagnato da Fossati che riprende l’atmosfera incantata della sua canzone più intensa, "Mio fratello che guardi il mondo", composta quattro anni prima. L’immagine iniziale riproduce un rito ancora rispettato dai contadini lucani: “Mastica e sputa, da una parte il miele, dall’altra la cera”. Il ragazzo comincia il suo viaggio di iniziazione, cercando le prime (impossibili) risposte ai grandi temi della vita e della morte: “Luce luce lontana più bassa delle stelle / quale sarà la mano che ti accende e ti spegne?”.
E poi c’è Nina, simbolo del mistero, del turbamento, del riscatto: “Ho visto Nina volare tra le corde dell’altalena / un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena / e se lo sa mio padre dovrò cambiar paese /se mio padre lo sa mi imbarcherò sul mare”. Sfidare l’autorità del padre, fuggire, affrontare da solo il mondo: “Stanotte è venuta l’ombra, l’ombra che mi fa il verso / le ho mostrato il coltello e la mia maschera di gelso”, che diventa un’armatura da guerriero pronto a battersi per la propria giovane libertà. È il percorso di Fabrizio che nella sua vita ha trovato e abbracciato tante Nine, ha raggiunto a caro prezzo la sua di libertà, ha raccolto sogni e sconfitte e avrà forse avuto la risposta alla domanda delle domande: “Quale sarà la mano che illumina le stelle?”.
(bonus track): L’INFANZIA DI MARIA
Musica di Fabrizio De André, Gian Piero Reverberi e Vittorio Centanaro, parole di Fabrizio De André e Roberto Dané
A mettere in chiaro chi è la vera protagonista dell’opera, Maria, lo testimonia la prima stazione della via crucis di De André, quella che lo stesso Don Andrea Gallo definisce “il quinto Vangelo”. Quando un cardinale replica di essere a conoscenza soltanto di quelli di Marco, Luca, Matteo e Giovanni, “il marxista della Cei”, come si autodefinisce Gallo, precisa: «Esiste anche il Vangelo secondo De André». Che inizia proprio con "L’infanzia di Maria", una bambina come le altre segnata però da un destino che non vuole e che non capisce: “Presero i tuoi tre anni e ti portarono al tempio”. Fino all’arrivo dell’adolescenza, del maggio della vita, delle prime mestruazioni, che le costano il ripudio: “E quando i sacerdoti ti rifiutarono alloggio / avevi dodici anni e nessuna colpa addosso / ma per i sacerdoti fu colpa il tuo maggio /la tua verginità che si tingeva di rosso”. Maria viene così messa letteralmente all’asta (“del corpo di una vergine si fa lotteria”), con il coro del popolo assatanato: “Guardala guardala scioglie i capelli / sono più lunghi dei nostri mantelli / guarda la pelle tenera lieve / risplende al sole come la neve… / Guarda le forme, la proporzione / sembra venuta per tentazione”.
La ragazza viene “assegnata” al vecchio Giuseppe, “un reduce del passato /falegname per forza, padre per professione”. Lui accetta perché deve, consapevole della differenza di età e dell’assenza disentimenti o passioni: “E mentre te ne vai stanco di essere stanco / la bambina per mano, la tristezza di fianco / pensi: quei sacerdoti la diedero in sposa / a dita troppo secche per chiudersisu una rosa / a un cuore troppo vecchio che ormai si riposa”. La magica melodia richiama una canzone del chitarrista Vittorio Centanaro, che già ha messo mano alla musica di "La guerra di Piero" e "Si chiamava Gesù", conosciuto dal diciottenne Fabrizio alla Borsa di Arlecchino, ritrovo obbligato della cultura genovese dove si esibiscono i giovani Paolo Poli e Carmelo Bene.
Testi tratti dal libro di Federico Pistone "Tutto De André", Arcana Edizioni, che abbiamo recensito qui.