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Dieci anni senza il Beastie Boy Adam Yauch

Un tumore si portò via MCA a soli 47 anni
Dieci anni senza il Beastie Boy Adam Yauch

Adam Yauch era un ragazzo della borghesia bianca newyorchese appassionato di hardcore punk, che ha scoperto il rap, ha preso quello che dell'hip hop gli serviva e insieme al suo gruppo ha scalato le classifiche. Niente di strano, si potrebbe dire, se non che i Beastie Boys queste cose le hanno fatte trentacinque anni fa, quando in Italia il rap nessuno aveva ancora idea di cosa fosse - sarebbe arrivato Jovanotti, qualche anno dopo, a tentare l'importazione dello stile e dell'atteggiamento del trio di "Licensed to Ill", che in occasione della scomparsa di MCA - questo il nome di battaglia di Yauch – il 4 maggio di dieci anni fa, definì "il gruppo che mi ha cambiato davvero la vita, mica tanto per dire. "Mi hanno mostrato una strada, fatto vedere che si poteva".

Prima ancora del fatto di essere bianchi e di fare rap, di non vivere nei ghetti pur essendo credibili in ambito hip hop, di non avere passione per l'ostentazione del proprio successo pur avendo - loro - avuto successo davvero, di avere un background rock e di aver tenuto a battesimo il crossover - ma al proposito il ruolo fondamentale fu giocato da Rick Rubin - la lezione che Adam Yauch e i Beastie Boys hanno dato e che in pochissimi sembrano avere ascoltato è quella dell'autoironia: i beasties hanno passato la loro carriera a prendere per il culo tutti. Sé stessi in primis, l'ottusità di discografici e gli addetti ai lavori (ricordate le prime battute del video di "No Sleep Till Brooklyn"?), la presunta integrità dei "colleghi", ma non solo.

Nel loro mirino c'era chiunque. E se capitava di passare il segno - "Girls", per dire - non mancava il carattere di scusarsi, ammettendo di averci ripensato: successe in "Sure shot", nel verso - cantato proprio da Yauch - "I want to say a little something that’s long overdue/ The disrespect to women has got to be through/ To all the mothers and sisters and wives and friends/ I want to offer my love and respect to the end" ("Ho qualcosa da dire molto in ritardo / Il disprezzo per le donne deve essere superato / A tutte le madri le sorelle le moglie e le amiche / Alla fine voglio offrire il mio amore e il mio rispetto").

I Beastie Boys - filosoficamente, prima ancora che musicalmente - sarebbero una realtà aliena ancora oggi: forse è per questo che, nonostante i milioni di dischi venduti, sono rimasti una realtà di nicchia, di quella magnifica nicchia che gli steccati tra generi e le direttive comportamentali proprio non le sopporta. Sicuramente, è per questo che ci mancano così tanto. Oggi nel decimo anniversario della scomparsa di Adam Yauch vi riproponiamo la lettura dell'ultimo album pubblicato dai Beastie Boys, "Hot sauce committee part two", pubblicato nel maggio 2011, e, già che ci siamo, anche l'ascolto di qualche sua canzone.

Stupisce, "Hot sauce committee part two". Stupisce perché da "Hello nasty" (non ai livelli di "Ill communication" o "Check your head", d'accordo, ma l'ultimo album dei Beastie Boys "vecchia maniera", pre-11 settembre e pre "Mix up") sono passati tredici anni, e in mezzo sono successe tante cose. L'attentato alle Torri, certo. E il cancro di Adam Yauch. Troppe cose. Cose che avrebbero fatto pensare ad un brusca virata, ad una messa in discussione profonda, perché ormai dai tre ragazzi di Brooklyn ci si aspettava il disco della maturità, o per lo meno l'album della svolta, un po' come successe ai Radiohead ai tempi di "Kid A".

Loro, che ci crediate o meno, sono riusciti a fare di più. "Oh, mio Dio, guardami/Il nonno sta rappando dall''83", canta insolente Ad-Rock su "Too many rappers". Già, cosa fare di più rivoluzionario se non spostare le lancette dell'orologio indietro al 1992 - erano gli anni di "Check your head" - per spiazzare il pubblico che si aspettava qualcosa di dolente, di cervellotico, e vedere tre quarantacinquenni bianchi continuare imperterriti a celebrare ironicamente l'old school, roba che l'ascoltatore medio di hip hop conosce solo vagamente per sentito dire? "Hot sauce committee part two" torna ai beat incalzanti, alle rime taglienti, agli scratch, ai ritornelli sparati di una volta, affogando ritmiche e voci nel riverbero alla faccia di new school, electro hop e tutto il resto, per concentrare in sedici episodi venticinque anni di carriera che hanno fatto la storia.

Certo, non ci sono più i riffoni granitici di "No sleep till Brooklyn", né l'atteggiamento squisitamente cialtrone di "Girls": qui siamo più dalle parti di "Sure shot" o "Intergalactic", anche se non mancano di riaffiorare reminiscenze hardcore (vedi alla voce "Lee Majors come again"). L'errore più grande, tuttavia, sarebbe considerare "Hot sauce committee part two" un'operazione di revival, o - peggio - un'inversione di marcia, visti gli scarsi riscontri critici e commerciali di "To the 5 boroughs" e "Mix up": non è facile, vista l'immediatezza e l'impatto dell'album, ma a saper leggere tra le righe si riconosce la mano di Philippe Zdar, addetto al mixing già nel giro di Daft Punk e Phoenix, bravissimo nel tessere trame di synth sulle voci dei nostri senza spingere sui riff e rubare la scena alle rime e nell'incastrare il classici beat acustici a tappeti elettronici tutto meno che scontati.

Poi ci sono tappe intermedie come "Don't play no game that I can't win", stralunato dancehall che vede il trio cedere il ruolo di voce principale a Santigold, o "Ok", col suo incedere scostante e nevrotico, a ricordarci che i Bestie Boys, con l'hip hop nel senso classico del termine, abbiano davvero poco a che fare ormai da un pezzo: MCA, Mike D e Ad Rock sono partiti dai codici del rap (quello di Chuck D e KRS-One, tanto per capirci) per poi crearsi, nel corso degli anni, una cifra ed un linguaggio unici, tanto distanti dallo standard hip hop oggi imperante quanto particolari e inconfondibili, e - soprattutto - applicabili a prescindere da generi e atmosfere. Sarebbe una bugia dire che "Hot sauce committee part two" abbia le qualità di rottura proprie dei dischi compresi tra "Licensed to Ill" o "Paul's Boutique": i Beasties oggi giocano a carte scoperte, consci di essere diventati - da innovatori quali sono stati a cavallo tra gli '80 e i '90 - veri e propri mostri sacri. Un ruolo scomodo, senza dubbio, per chi dell'iconoclastia ha fatto il proprio marchio di fabbrica. Un ruolo al quale non ci si può sottrarre, dopo una carriera del genere, ma che può essere esorcizzato - e ridefinito - grazie ad un disco come questo. Disco che non poteva che essere realizzato da tre ultraquarantenni che nonostante tumori e attentati hanno più energia di tanti ventenni...

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