L'ultimo saluto dei Pantera
I Pantera sono stati uno dei più grandi gruppi metal di sempre, di sicuro uno dei più importanti degli anni Novanta. La band texana capitanata dai fratelli Abbott, Dimebag Darrell (chitarra) e Vinnie Paul (batteria), oltre a Phil Anselmo (voce) e Rex Brown (basso), è rimasta in attività dal 1981 al 2003, anno in cui si sciolsero a causa (principalmente) dei cattivi rapporti tra i due fratelli e il cantante Phil Anselmo. Nel marzo del 2000 pubblicarono l'ultimo dei loro nove album, "Reinventing the steel", che dedicarono ai loro fan. A seguire ricordiamo i Pantera ripubblicando la recensione del loro canto del cigno che l'anno scorso Anselmo incoronò quale essere il migliore del gruppo.
La forza dell’heavy metal e la capacità di trasformare ogni riff ed ogni sillaba in una potente rasoiata, ha reso il rock dei Pantera una delle poche certezze a questa mondo. Una certezza che si materializza sia nella loro abilità di non sapersi svendere al mercato ed al trend, sia nella determinazione di non voler contaminare la propria musica con strani generi musicali (rap, funk, punk).
Se ognuno degli album prodotti da Anselmo&C. è stata una prova convincente della forza del quartetto, “Reinventing the steel” non è certo da meno, riuscendo ancora ad incoronare i texani come il miglior gruppo metal americano (e forse del mondo) tuttora in circolazione. Escludendo a priori il titolo dell’opera, i Pantera qui non inventano assolutamente niente di nuovo (e ci mancherebbe!), ma scodellano delle canzoni di puro “true metal” una più pesante dell’altra, in un cocktail al vetriolo che esalta la brutale estensione vocale di Anselmo, la ritmica di Brown, il drumming di Paul e la precisione della chitarra Washburn di Darrell.
La prima traccia “Hellbound” è schizofrenia pura, una canzone che nel suo alternare ritmi calmi e urla folli ricorda molto “Strenght beyond strengh” e “The great southern trendkill”. La seconda “Goddamn electric” è il pezzo clou dell’album, con cadenze stile “Domination” e “Walk”, arricchito dal corrosivo finale di chitarra dell’ospite Kerry King (Slayer).
“Yesterday don’t mean shit” è stata la prima canzone scritta dal gruppo per quest’album e anch’essa riporta alla memoria un vecchio hit: “New level”. “You’ve got to belong to it” sarà menzionata soprattutto per il riff di chitarra, mentre in “Revolution is my name” e “We’ll grind that axe for a long time” emergono tutta la cattiveria e l’intensa carica emotiva del metal sudista.
“Death rattle” è l’esempio di come l’hardcore si sia intrufolato subdolamente nel sound dei Pantera, mentre “Uplift” è animata da un groove che farebbe invidia anche a Zakk Wylde. La penultima canzone, “It makes them disappear”, risente dell’influenza Black Sabbath e del doom-rock, mentre chiude in bellezza la mosheggiante “I’ll cast a shadow”. Un album da dieci e lode.