Rockol30

Slash: ‘Così per ‘4’ ho portato in studio l’energia del live’. L’intervista

Il chitarrista dei Guns N’ Roses ha incontrato la stampa internazionale per presentare il quarto capitolo del suo sodalizio con Myles Kennedy: ‘Mi piace il rock, mi piacciono le chitarre. Per questo disco sono riuscito a fare qualcosa che...'
Slash: ‘Così per ‘4’ ho portato in studio l’energia del live’. L’intervista

Mentre in Italia è (quasi) buio e fa freddo, Slash appare sorridente - in t-shirt - collegato in diretta da un’assolata Los Angeles: lo storico sodale di Axl Rose ha convocato (via Zoom) la stampa internazionale per presentare “4”, il nuovo - quarto - capitolo da studio (in uscita oggi, venerdì 11 febbraio) frutto del sodalizio stretto ormai più di dieci anni fa con Myles Kennedy e i Conspirators. Un album “urgente”, nel senso etimologico del termine, registrato dal vivo al 100% in un luogo sacro della tradizione musicale statunitense - gli studi della RCA a Nashville, dove, tra l’altro, ha sede l'etichetta che ha dato alle stampe il lavoro, la neonata Gibson Records. Per i fan europei, una sorta di anticipazione di quanto potrebbe succedere sui palchi a partire dall’inizio del prossimo anno, quando - terminato il tour con i Guns N’ Roses, che farà tappa anche a Milano - Mr. Saul Hudson potrebbe tornare ("Tengo le dita incrociate perché tutto fili liscio", dice lui, che durante le session di lavorazione al disco ha contratto il Covid insieme ai suoi compagni di band) sui palchi del Vecchio Continente insieme al leader degli Alter Bridge. “Non sono il tipo che pensa troppo al futuro”, confessa lui parlando del sodalizio col in frontman nato quasi per caso nel 2010: “E’ scioccante, per me, pensare che la nostra collaborazione si sia spinta così in là…’

 

Una buona parte del DNA del nuovo disco è figlio di una conversazione che hai avuto con il tuo produttore, Dave Cobb, circa un altro produttore, Glyn Johns. Curioso che sia andata così, e che il suo nome sia così importante per te…

Dave Cobb è un grande fan di Glyn Johns, che ha prodotto molti dischi rock fondamentali di Rolling Stones, Led Zeppelin e altri. Anch’io sono un suo grande fan, perché è stato uno dei massimi pionieri nella produzione tra i tardi anni Sessanta e i Settanta, e perché ha firmato diversi tra i miei album preferiti di sempre: quando Dave l’ha citato, ho pensato che quella fosse esattamente la direzione che dovevamo prendere…

 

Le canzoni di “4” hanno un sound proprio di un live: com’è stato registrarle?

Abbiamo fatto tutto dal vivo, registravamo al momento gli arrangiamenti che ci piacevano di più: sì, ha un sound molto vicino a una session, perché il disco non è altro se non una registrazione di buona qualità di noi che suoniamo in una stanza. In tutte le band dove ho suonato abbiamo sempre registrato dal vivo fino a un certo punto, perché suonavamo sì tutti insieme, ma poi più tardi reincidevamo le chitarre o le voci. Funziona bene, perché si riesce a catturare l’energia dell'esecuzione ma è un processo un po’ più controllato rispetto a quello che abbiamo seguito per questo disco. Un altro vantaggio di registrare parzialmente dal vivo è che si ha la possibilità di fare piccole modifiche e ottenere esattamente quello che si stava cercando. Fai tutto al meglio delle possibilità e alla fine non devi correggere niente. I pro delle sovraincisioni sono la possibilità di perfezionamento, i contro sono la perdita di parte dell’energia del live.

 

Credi che fare il musicista abbia perso qualcosa a causa della tecnologia che oggi è disponibile negli studi?

L’evoluzione tecnologia è una grande cosa, anche se non è proprio la mia passione. Oggi puoi fare qualsiasi cosa tu voglia, ma spesso ci si riduce a non suonare le canzoni per intero e limitarsi ad assemblarle pezzo per pezzo. Quando sei in una rock band il tuo lavoro è uno solo: si tratta di entrare in uno studio e suonare il tuo strumento, senza aver bisogno di un produttore che lo faccia per te. Il pop funziona così, non è una novità: la tecnologia ha reso le cose sempre più facili, portando la gente ad ascoltare cose che si suppongono essere registrate da un artista ma che, in realtà, non lo sono.

 

Il nuovo disco sembra più crudo e un po’ più orientato al punk rispetto ai precedenti: è una cosa voluta o è semplicemente il frutto delle registrazioni fatte dal vivo?

E’ semplicemente la natura del nostro atteggiamento quando suoniamo insieme. Il sound è un po’ più aggressivo e decisamente più rock.

L’intesa tra te e Myles è cambiata nel corso degli anni? Siete cresciuti insieme anche artisticamente?

Direi che l’intesa tra noi è decisamente un’entità in continua evoluzione. Non potrei indicare con precisione quali siano gli sviluppi, perché stiamo lavorando insieme da così tanto tempo e abbiamo imparato a conoscerci: le cose tra noi succedono naturalmente, e noi le assecondiamo.

 

Hai imparato o scoperto qualcosa di nuovo su te stesso durante il lungo periodo di lontananza dai concerti provocato dalla pandemia?

Credo che la cosa più importante che ho imparato sia la pazienza. Non ne ho mai avuta molta, ma questa situazione mi ha costretto ad averne. Sì, credo di aver imparato molto sulla pazienza, in questo paio d’anni…

 

Com’è stato lavorare con Dave Cobb e registrare nella sala A degli RCA Studios di Nashville?

Prima di registrare questo disco non conoscevo Dave. Mi è stato consigliato: lui si è occupato principalmente di country - che è una cosa diversa da quella che mi interessa, perché oggi viene lavorata un po’ come il pop - ma sa stare molto con i piedi per terra. Innanzitutto ha prodotto l’ultimo disco dei Rival Sons [“Feral Roots” del 2019], una delle nuove rock band che mi piacciono di più, che suona alla grande. Abbiamo parlato, e sono saltati fuori i discorsi su Glyn Johns e sul fatto di registrare dal vivo: registrare un disco suonando live come abbiamo fatto è una cosa che ho sempre desiderato, nel corso della mia carriera, ma che nessun produttore mi ha mai offerto l’opportunità di fare. Così siamo andati a Nashville, nella sala A dei leggendari studi della RCA: questa sala di ripresa storica, dove moltissimi artisti country iconici come Johnny Cash o Dolly Parton hanno registrato i loro dischi - le pareti erano pieni di loro foto in bianco e nero, ci ha immersi in una situazione lavorativa molto creativa. E’ stato davvero molto stimolante. Ci siamo semplicemente piazzati e abbiamo iniziato a jammare in questa stanza enorme, divertendoci molto: Dave ogni tanto entrava, prendeva il tamburello, e dava un’occhiata. Era entusiasta. E’ stata davvero una bella esperienza lavorare con lui.

C’è un riff o una canzone particolare che ti piace suonare quando provi una nuova chitarra?

Un tempo lavoravo in un negozio di chitarre e mi ricordo la gente che entrava cosa faceva quando provava gli strumenti. Odio entrare in un negozio di chitarre, prenderne una e suonare qualcosa di qualcun altro: di solito provo con cose alle quali sto lavorando al momento, giusto per capire le differenze [tra gli strumenti]. Come regola, in ogni caso, ho quella di non suonare niente di nessun altro…

 

Il disco è pubblicato dalla Gibson Records [il primo titolo presente nel catalogo della label collegata allo storico brand di strumenti musicali]: cosa puoi dire di questa etichetta?

Con la Gibson ho una relazione dal 1988, negli anni abbiamo sviluppato un solido rapporto professionale e personale, nonostante i tanti cambiamenti che la società ha sperimentato nel corso del tempo. Per me, che sono un tipo da Les Paul, è una figata essere con loro. La Les Paul, l’Explorer, la Melody Maker, la SG, la Firebird [tutti modelli di Gibson], sono chitarre fantastiche. Quando mi hanno proposto di pubblicare il disco con Myles e i Conspirators per me è stato uno shock, perché non avevo idea che stessero per fondare un’etichetta. Non gli ho risposto subito, ci ho pensato un po’, e la ragione principale che mi ha spinto a farlo è stata perché Cesar [Gueikian, attuale CMO di Gibson] stava prendendo il controllo della società dopo la ripartenza [successiva alla bancarotta]. Lui l’ha rimessa in pista e l’ha riportata ad occuparsi di ciò che doveva. Grazie a lui e agli altri elementi dello staff ho capito che questa operazione sarebbe stata una cosa positiva per tutti, per me e per loro, e che sarebbe stata una buona mossa in generale per l’industria discografica. Mi è sembrata una scelta intelligente e divertente.


(foto: Austin Nelson)

Cosa rende così efficace il binomio tra il tuo stile alla chitarra e quello alla voce di Myles?

E’ una cosa successa in modo del tutto naturale già dalla prima volta che ci siamo incontrati: ho sentito davvero Myles cantare e scrivere testi in uno stile molto vicino al mio, e che non avevo sentito mai in nessun altro. E’ stato speciale fin dall’inizio. Gli avevo mandato una demo con una bozza di “Starlight” [brano incluso nel primo album solista di Slash, “Slash” del 2010]: quando mi ho sentito il materiale che aveva lavorato mi sono detto ‘wow, è incredibile, non ho mai incontrato questo tizio’. Così lui è venuto a L.A., ci siamo ritrovati in studio e lì si è creata quella sintonia magica. Una volta registrata la versione da studio di “Starlight”, io avevo un’altra idea che mi sembrava interessante, che poi sarebbe diventata "Back from Cali" [sempre da “Slash”, e sempre scritta e firmata insieme a Kennedy]. Con queste due canzoni è iniziata la nostra collaborazione, e da allora non è cambiata più di tanto: iniziamo con dei frammenti di materiale che poi evolvono naturalmente in qualcosa di bello. Siamo l’uno fonte di ispirazione per l’altro, abbiamo un bel rapporto personale: [artisticamente] funziona, tutto qui.

 

Hai usato il sitar in “Spirit Love”: come hai scoperto questo strumento? Attraverso la musica dei Beatles? E cosa ti piace del suo sound?

E’ molto divertente: ho comprato un sitar elettrico negli anni Novanta ma non l’ho mai usato, perché il suo sound è diventato un cliché, e non avevo nessuna intenzione di fare qualcosa che richiamasse i Beatles o gli altri gruppi anni Sessanta che lo usavano. Quando ho scritto la musica [di “Spirit Love”] l’intro l’ho suonata con la chitarra, e andava bene, ma quando l’abbiamo registrata a Nashville abbiamo pensato che potevamo dare alla parte un sound particolare, così siamo arrivati al sitar. Attaccarlo ai miei Marshall ci ha restituito un sound davvero figo, che non è quello dei Beatles o Ravi Shankar, o comunque quel tipo di suoni che evocano l’oriente: è qualcosa di diverso…

 

L’approccio live che hai usato per registrare il disco può essere considerato una sorta di sublimazione della mancanza di concerti dovuta alla pandemia?

Devo ammettere di non averci mai pensato, ma è un modo interessante di interpretare questo cambiamento: per certi versi, il processo di registrazione del disco è il precursore di quello che succederà ai nostri concerti.

 

Hai sempre lavorato con apparecchiature analogiche per registrare i tuoi dischi, cosa non comune per quelle che sono le odierne modalità di registrazione nel mainstream: in passato hai già reinventato questo modo di fissare le canzoni su nastro, e adesso sei passato alle riprese completamente dal vivo. Cosa ti hanno insegnato le esperienze passate?

Ho sempre amato questo modo di lavorare, che non ho mai smesso di usare. Mi piacciono le chitarre, il rock and roll, e tutto ciò che ne consegue. E’ un viaggio che non finisce mai, si impara sempre qualcosa di nuovo. Il fatto non è tanto reinventarmi, perché mi sto ancora reinventando. Suonando la chitarra ci sono sempre cosa nuove da scoprire: è un lavoro che mi diverte. Imparare dalle esperienze credo faccia parte della mia natura, ormai. Amo quello che faccio, e non riesco a immaginare di smettere…

Quando hai iniziato a lavorare con Myles Kennedy avresti mai detto che il vostro sodalizio sarebbe durato così a lungo?

Tendo a ragionare molto sul presente, non ho mai guardato troppo in là tanto nel passato quanto nel futuro. Quando ho lavorato per la prima volta con Myles tutto riguardava quello specifico progetto, il disco e il tour. E proprio durante quel tour [quello in supporto a “Slash”, con Kennedy ingaggiato come cantante della band] abbiamo iniziato a scrivere quello che poi sarebbe diventato “Apocalyptic Love” [il primo album con i Conspirators, del 2021]. Da lì in poi le cose sono successe da sole: all’epoca non pensavo a cosa sarebbe successo così avanti, nel futuro. Pensandoci adesso, dopo quattro dischi e dodici anni insieme, è uno shock: non avrei mai pensato che questo progetto sarebbe durato così tanto…

La fotografia dell'articolo è pubblicata non integralmente. Link all'immagine originale

© 2025 Riproduzione riservata. Rockol.com S.r.l.
Policy uso immagini

Rockol

  • Utilizza solo immagini e fotografie rese disponibili a fini promozionali (“for press use”) da case discografiche, agenti di artisti e uffici stampa.
  • Usa le immagini per finalità di critica ed esercizio del diritto di cronaca, in modalità degradata conforme alle prescrizioni della legge sul diritto d'autore, utilizzate ad esclusivo corredo dei propri contenuti informativi.
  • Accetta solo fotografie non esclusive, destinate a utilizzo su testate e, in generale, quelle libere da diritti.
  • Pubblica immagini fotografiche dal vivo concesse in utilizzo da fotografi dei quali viene riportato il copyright.
  • È disponibile a corrispondere all'avente diritto un equo compenso in caso di pubblicazione di fotografie il cui autore sia, all'atto della pubblicazione, ignoto.

Segnalazioni

Vogliate segnalarci immediatamente la eventuali presenza di immagini non rientranti nelle fattispecie di cui sopra, per una nostra rapida valutazione e, ove confermato l’improprio utilizzo, per una immediata rimozione.