
Esiliati dalla loro terra, i Tinariwen inseguono “ricordi costruiti su dune in perenne movimento”. Hanno il blues, eppure fanno musica vivace e ipnotico che canta la lontananza da una terra dove gli elefanti (“elwan”, come da titolo dell’album) combattono e distruggono tutto ciò che incontrano.
Deserti diversi, musica uguale, ha titolato (più o meno) l’inglese Observer. E cioè: esiliati dal Mali, zona di guerra, i Tinariwen hanno registrato il nuovo album in parte negli studi Rancho de la Luna, nel deserto californiano di Joshua Tree, in parte a M’Hamid El Ghizlane, nel Marocco meridionale, eppure la cosa non si sente granché. Il nuovo album dei profeti del desert rock non si distacca radicalmente da quelli che l’hanno preceduto – e del resto anche “Emmaar” del 2013 era nato in California. “Elwan”, che significa elefante, basa il suo fascino sul potere dell’iterazione, sul turbinio di intrecci chitarristi, su voci che seguono lo schema call-and-response. Sulla fusione di musica assouf e blues alimentata – più che nel passato recente, ecco una novità – sulla carica propulsiva delle percussioni. È il disco di un gruppo in esilio che fa i conti con la propria tradizione, con la rabbia, con la nostalgia. Ma non si arrende.