Un album splendido come “Bad love” lo ha riportato di recente all’attenzione del pubblico e della critica, confermando – se mai ce ne fosse bisogno – che Randy Newman è uno dei più lucidi, arguti e originali narratori in musica che possa vantare l’America. Dopo il recente passaggio discografico alla Dreamworks, Newman è tornato alla musica pop con un album che per molti versi sintetizza egregiamente i suoi trenta e passa anni di carriera. L’intervista che segue è stata distribuita dalla Dreamworks* insieme al press-kit dell’album, e offre uno spaccato prezioso sull’arte dello scrivere canzoni secondo Randy Newman.Hai detto di non scrivere per cercare un rifugio, cosa che invece accomuna molti dei tuoi colleghi compositori. Cos’è che ti ha motivato a scrivere canzoni?
Mi sono sempre sentito come forzato nei confronti della musica. Quando ho iniziato a suonare il piano, da ragazzo, non mi esercitavo mai. Penso di aver suonato molto poco per divertimento, nella mia vita. Non mi è mai piaciuto il modo in cui suonavo. Per me è sempre stato un lavoro. In realtà, più che un lavoro, la musica è tutto, vita e morte. Ma nonostante ciò non mi sono mai messo al piano con l’intenzione di cercare un rifugio. Anzi, a volte mi comporto come se l’inconscio non esistesse, come se sapessi realmente tutto su di me. Mi muovo ad un livello in cui non penso se quello che faccio mi dà sollievo. Credo di non amare il lavoro, ma so che quando lavoro mi sento meglio. Che non vuol dire trovare sollievo in quello che fai. Se ti seppellisci sotto qualcosa, puoi usarla come scusa per non avere una vita tua. Puoi giustificare qualsiasi cosa: «No, non posso giocare con te a palla, figliolo, perché devo scrivere due minuti di musica». I compositori di colonne sonore in special modo sono i peggiori padri dai tempi di Caligola.
Se la musica ti sembra così noiosa, perché ti ci sei dedicato?
Be’, c’erano molte cose che amavo, nella musica. Amavo Ray Charles e Fats Domino, e alcune delle prime cose di Carole King. Ho sempre amato Beethoven e i quartetti di Bartok. Ma suonare e scrivere la mia musica sembrava essere un affare serio, e per giunta uno di quelli in cui non è che fossi particolarmente brillante. Avrei preferito piuttosto leggere o guardare la televisione.
Quando sono cambiate le cose? Quando ha cominciato a diventare qualcosa che ti piaceva?
Non è ancora successo! A volte penso che se smettessi oggi non farei niente di sbagliato. Ma so che mi mancherebbe quella bella sensazione che hai quando stai facendo queste cose, quando puoi dire a te stesso: «Questo va bene». Mi ricordo di quando ero ragazzino e provavo questa incredibile emozione, dopo aver scritto qualcosa che mi piaceva davvero. Una sensazione che sarebbe durata per un po’. E’ come il sesso – non è detto che tu ti accorga di sentirti meglio il giorno dopo, ma di fatto stai meglio. Dopo un po’, comunque, va via, non è una cosa che dura a lungo, soltanto un giorno o due. In un certo senso, con queste nuove canzoni, sono tornato a come mi sentivo quando ero più giovane. E mi dura di più questa sensazione, forse anche perché sto scrivendo tanto, in questo periodo. Anche perché la composizione di colonne sonore mi costringe ad essere più disciplinato nell’uso del mio tempo, così in qualche modo mi organizzo per poter scrivere delle canzoni piuttosto che perdere tempo facendo il buono a nulla, stravaccato e sofferente.
In che modo scrivi? Come nascono le tue canzoni?
Inizio quasi sempre con delle successioni di accordi al pianoforte, fino a quando arriva qualcosa. Riesco ad entrare nella frequenza di qualcosa – posso ascoltare la sintassi o la dizione di chiunque stia cantando la canzone. La natura di ciò che scrivo spesso è narrativa fatta in prima persona. Ascolto le parole che dice una persona e non faccio altro che seguirle.
Perché pensi che le cose vadano in questo modo?
Credo che dipenda dal fatto di aver iniziato a scrivere in un modo per cui ogni canzone mi sembrava potesse essere una canzone d’amore – e a volte è ancora così. Ho una certa reticenza nel dire «Ti amo», e molto francamente, credo che ero annoiato dall’idea stessa di doverlo dire. Stavo leggendo dei grandi autori in quel periodo, e persino “Sports illustrated” è più vario del testo classico di una ‘love song’. Ero molto più interessato a dei personaggi, dalle apparenze leggermente aberranti.
Molti dei tuoi personaggi sono alquanto raccapriccianti. C’è qualcosa di te in ognuno di loro?
Non credo che siano raccapriccianti. Molti di loro sono semplicemente degli illusi, o dei disperati. Chi ascolta normalmente capisce più cose su di loro di quanto ne sappiano essi stessi. E no, non credo che ci sia una parte di me in ogni personaggio. Ma c’è sicuramente qualcosa in cui mi identifico. E’ come nei film – quando vedi un personaggio talmente cattivo da sembrare quasi un cartone animato, per cui in qualche modo tendi a ridimensionarlo. Gli esseri umani sono molto più complicati di così. Persino Hitler aveva dei gesti d’affetto per i suoi cani. La gente è la gente – e non sono dei mostri. O forse alcuni lo sono, anche se, fortunatamente, non ne ho mai incontrato uno.
C’è sicuramente un carattere letterario in questo tuo approcciare le canzoni attraverso gli occhi di un personaggio. E’ una cosa che ti inserisce in qualche raffinata scuola di composizione?
No! Non ho mai pensato che le mie canzoni fossero in qualche modo cerebrali, o dirette ad un pubblico selezionato. E non lo credo neanche adesso. Non sono un intellettuale. Quello che faccio è scrivere canzoni pop – non faccio arte. Ho sempre cercato di scrivere dei successi. E’ solo che la mia idea relativamente a come potrebbe essere un hit è abbastanza diversa dal comune. Le mie canzoni non suonano come se fossero state scritte con degli intenti commerciali, ma in realtà è proprio così. Capisco un po’ meglio, adesso, perché qualcosa come “The world isn’t fair” non verrà suonata dalle radio. Non con quel genere di melodia – il tutto sembra soltanto un intro – e non con delle parole d’apertura come “Quando Carlo Marx era un ragazzo”. Ma per anni non ho mai capito queste cose. Pensavo: «Be’, perché no?»
Hai ricevuto enormi gratificazioni come compositore di musiche da film, e questo sembra essere un modo più che decente di sbarcare il lunario. Perché continui a fare degli album pop? C’è qualche risultato che senti di dover ancora raggiungere in questo genere musicale?
Devo ancora raggiungere svariati obiettivi – mi piacerebbe vendere dei dischi, a un certo punto della mia carriera. Ma credo che scrivere canzoni sia ancora la cosa che so fare meglio. Se c’è qualcosa che faccio da cui viene fuori in qualche modo il mio ‘essere speciale’, questa è lo scrivere canzoni. Scriverò canzoni per sempre, e spero di poter pubblicare sempre degli album. Non sono sicuro che farò degli album per sempre, comunque, perché è una cosa che richiede molta autodisciplina e io non ce l’ho. L’altra cosa è che scrivere colonne sonore rende ancora più bello, per contrasto, il lavoro dell’autore di canzoni, perché lì non devi preoccuparti di cosa pensa il regista; sei libero di fare ciò che vuoi. E quando ci sei dentro, ti rendi conto che la musica da film non è davvero così importante. Ho avuto un grande riscontro a proposito delle mie colonne sonore, ma quando mi capita di incontrare persone che mi dicono: «La tua musica ha significato molto per me», normalmente si riferiscono ai miei album.
Nella canzone “I want everyone to like me”, tu dici – o forse è uno dei tuoi personaggi? - :«Voglio conquistare il rispetto dei miei pari». A chi ti riferisci?
A James Taylor, Paul Simon, Peter Gabriel, Prince, Chrissie Hynde.
Cosa ne pensi della prossima generazione di cantanti-autori?
Mi piacciono Sarah MacLachlan, Bjork e Alanis Morissette. Molta gente ha pensato che il suo album fosse una schifezza, ma io le ho creduto: penso che fosse veramente disgustata da una serie di cose. E mi piaceva molto quel rapper che è morto, Notorious B.I.G. Ogni tanto c’è qualcosa che mi colpisce, ma non capita spesso.
Parlando di giovani, il tuo nuovo album è stato prodotto da Mitchell Froom e Tchad Blake. Cosa hanno apportato al disco?
Lavorare a “Bad love” è stato bellissimo, divertente come mi era successo poche volte. E’ stato molto veloce, senza però penalizzare la qualità del prodotto. Mitchell è un bravissimo musicista – ha l’attitudine giusta. Con il suo lavoro alle tastiere ha contribuito enormemente a dare valore al disco. E’ molto bravo in una fase della quale mi interesso sempre poco – la realizzazione delle tracce base. Parla poco, a volte dice soltanto: «Forse potremmo fare così». Le sue idee quasi sempre hanno migliorato le cose. Mi rendo conto di non avere sempre le idee chiare su quando, ad esempio, dovrebbe entrare la batteria, e così per queste cose mi sono affidato a lui. Io ho fatto gli arrangiamenti e diretto l’orchestra, e lui mi ha dato fiducia a sua volta. Inoltre, Mitchell mi ha fatto sentire a mio agio mentre cantavo e suonavo. Capisce che sono quello che sono e che le mie parti possono essere ok anche se non sono tecnicamente perfette. E’ il mio stile. E il mio modo di suonare è migliorato moltissimo. Ho provato davvero piacere nel vedere i miei progressi.
Perché l’album si intitola “Bad love”?
C’è un filo che lo attraversa, un modo quasi patologico di sentire l’amore è racchiuso in molte delle canzoni. “My country”, ad esempio, è un caso di amore per la TV. “Shame” è un amore che non tiene in considerazione la dignità. Semplicemente amo l’idea di un uomo vecchio, ricco e potente agganciato da una ragazza giovane. “I’m dead” parla di un amore nei propri confronti realmente accecante…Una volta arrivati ad una certa età, non credo che bisognerebbe continuare a fare gli smargiassi sul palco – mi sembra un po’ ridicolo.
Uno dei tuoi produttori del passato ha descritto la tua musica come “uno splendido suono con un’intenzione cattiva”. E’ vero?
Credo che ci sia una dicotomia tra la mia sensibilità letteraria e quella musicale. Naturalmente, non ho paura di una certa dose di romanticismo, dal punto di vista musicale, mentre sul versante dei testi le cose vanno molto diversamente. E ad un livello più conscio, mi rendo conto di dover trasformare le considerazioni più brutte in cose facili da mandare giù. Se avessi fatto della musica davvero irta di difficoltà – o comunque all’opposto di ciò che si può intendere per “splendida” – la gente non sarebbe neanche riuscita a sentire ciò che dicevo. Per quanto riguarda i miei intenti, be’, non sono certo l’esercito della salvezza. E non sono particolarmente ottimista riguardo a molte cose. Ma quella che è stata scambiata per cattiveria in alcune delle mie canzoni non è in realtà descrittiva di qualcosa o di qualcuno – è solo esagerazione per il gusto di fare della satira. Non credo che la gente sia davvero così cattiva, anzi so che non è così.
*si ringrazia Filippo Rostoni della Universal Italia per la collaborazione.