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Jon Hopkins, la musica come viaggio e come rituale trascendente

"L'ambient non è solo incenso sonoro": intervista al producer e collaboratore di Brian Eno/Coldplay
Jon Hopkins, la musica come viaggio e come rituale trascendente
Credits: Imogene Barron

Musica ambient ma per viaggiare con la mente, non solo per rilassarsi: venerdì 30 esce “Ritual”, nuovo album del producer Jon Hopkins, uno dei nomi più importanti della musica elettronica degli ultimi 15 anni, ma anche collaboratore di Coldplay e Brian Eno. Fu quest'ultimo, il suo mentore, a definire l’ambient negli anni '70: “musica che può rimanere sullo sfondo, ma che ti gratifica se la ascolti attentamente”. Ora però è diventato un termine abusato per musiche strumentali generiche che riempiono le playlist sulle piattaforme: “Ciò che le persone chiamano ambient oggi essenzialmente è musica elettronica rilassante fatta con i synth, una sorta di incenso sonoro…”, racconta Hopkins, via zoom da Berlino. “Questo album più che a rilassare, punta al cuore, ai processi emotivi, è una sinfonia elettronica”, spiega.

"Ritual" procede come storia divisa in movimenti dai titoli suggestivi ("Illusion", "Trascend/Lament", "evocation, "Dissolution", "Nothing is lost"). Una stuttura ispirata alla teoria del racconto del “viaggio dell’eroe”, quella che ha ispirati pure “Guerre stellari”: “Penso che il suono possa  trasmettere anche più delle parole”, spiega Hopkins.
“Ritual” esce in un periodo che segna il ritorno di pesi massimi dell’elettronica, che pubblicano il loro album in questo mese: Floating Points (“Cascade”, 13 settembre), Jamie XX (“In waves”, 20 settembre), ma anche di nuove star come Fred Again..(anche lui allievo di Brian Eno: “Ten days” esce il 6 settembre) o LP Giobbi (ottobre). Hopkins, però, racconta di essersi ormai allontanato dalla scena del clubbing e dal mainstream: “Ritual” è il suo disco più ambizioso e stimolante.

Dai Coldplay a “Ritual”

Il viaggio di Jon Hopkins è cominciato vent’anni fa: “Ritual” è il suo decimo lavoro tra elettronica, ambient, colonne sonore, collaborazioni come lo stupendo “Field recordings jubilee” con King Creosote, e un album con Brian Eno e Leo Abrahams. Ma la svolta della carriera avvenne proprio grazie a Eno, che lo mise in contatto con i Coldplay: nel 2008 Chris Martin si innamorò di “Life Through the Veins”, brano allora inedito e quella musica diventò “Life in technicolor”, aprendo “Viva la vida”, nonché i concerti della band. Hopkins si trovò co-autore e co-produttore di uno dei dischi di maggior successo del decennio. 16 anni dopo, nel 2024, il tour dei Coldplay viene dichiarato il maggior successo live degli ultimi anni: la musica che introduce la band sul palco è sempre di Hopkins, un’altra composizione inedita.

"Avevo solo 27 anni”, mi racconta. “In una delle prime sessioni eravamo solo io Chris a Los Angeles ed ero super nervoso, è lì che ha sentito 'Life Through the Veins’, che avrei pubblicato poco dopo. Grazie ai Coldplay ho avuto la sicurezza finanziaria per lavorare a lungo su un album come ‘Immunity” che ha definito la mia carriera”, ricorda - citando l’album del 2013 considerato il suo capolavoro (e ristampato l’anno scorso in versione espansa per il decennale).

Un rituale per la terapia psichedelica

“Ritual”, che esce domani 30 agosto, segue un altro percorso: è la continuazione della sua esplorazione nell’ambient music, un percorso iniziato con “Music for psychedelic therapy”, uscito tre anni fa. “Un album senza la parte ritmica, forse una reazione a tutti i miei anni di tour e clubbing: ho voluto esplorare il lato più profondo e vulnerabile del fare musica”, spiega.
“Ritual”, pur senza essere un album di elettronica classica, recupera almeno in parte la sua firma sonora unica, quella che lo ha reso un mito tra gli amanti del genere e un punto di riferimento tra i colleghi. Ma Hopkins è ormai da un’altra parte rispetto ai producer che riempiono festival e palazzetti - quando non stadi - con i loro beat, le loro performance e DJ set. “Sento di aver raggiunto la fine di quel percorso. Un giorno potrei fare di nuovo musica con quel formato, ma ora sono più interessato alle capacità del suono di creare degli spazi e una forma di intensità senza la necessità di avere una parte ritmica”.
Tant’è che, racconta, ormai fa pochi show e ancor meno DJ set. Il nuovo album, come quello precedente, viene presentato con una serie di listening session in cui “Ritual” viene fatto ascoltare a luci spente, per creare un'esperienza immersiva e trascendente.

La musica come viaggio e come rituale collettivo trascendente

Hopkins definisce “Ritual” come una sinfonia elettronica: più che musicisti cita tra le influenze la mitologia classica e gli studiosi Joseph Campbell e Christopher Vogler e la loro teoria del "viaggio dell'Eroe": “Questo album è pensato come un percorso, con un suo arco narrativo: la scoperta, c'è la creazione, la distruzione, la rinascita il ricordo: sono tutte idee semplici, che puoi trasmettere con il suono. L’essere umano e la musica si sono evoluti insieme; già in tempi antichi si cercavano stati trascendenti attraverso il ritmo e suonando insieme. Il clubbing, alla fine, è la nostra versione attuale di accesso alla stessa stato di trascendenza dei nostri antenati. Per me il vero punto cruciale dell'album è l'emozione, la connessione”.

Per questo Hopkins organizza, più che performance, eventi “immersivi”, in cui la musica viene ascoltata assieme, senza performance: “immergermi nella musica è qualcosa che ho cercato per tutta la vita, fin da adolescente semplicemente sedendomi felicemente lì con le cuffie per ore. Ora siamo in un epoca in cui la capacità di attenzione è ai minimi storici, le persone ascoltano la musica come vogliono e non lo puoi controllare: gli eventi che organizziamo sono un modo per suggerire una possibilità di ascolto nella sua piena profondità. Ma oggi tutti hanno delle buone cuffie: puoi semplicemente spegnere le luci e sdraiarti a letto.

Gli faccio notare che gli eventi di presentazione dell’album assomigliano un po’ ai listening party di Kanye West, migliaia di persone in un palazzetto e lui al centro che mima le canzoni: “Davvero? È folle… Ma forse se i suoi fan si sono divertiti davvero, va bene. Però è una buona idea, possiamo anche noi indossare strane maschere e far pagare molto di più…”

Hopkins parla al plurale perché a fianco a lui c’è Dan Kijowski, alias 7Rays, suo amico di infanzia ritrovato negli ultimi anni “Ritual”, raccontano i due è un disco collaborativo come già “Music for psychedelic therapy”, firmato assieme a Vylana, Ishq, Clark, Emma Smith, Daisy Vatalaro e Cherif Hashizume. Fare musica elettronica può essere un processo molto solitario anche quando è pensata per essere condivisa e ballata: “Non credo che sarei più in grado di fare un album da solo così”, spiega. “Jon è un grande arrangiatore e curatore, riesce a mettere assieme persone e suoni diversi. Assieme funzioniamo come una vecchia macchina che scricchiola: il processo può sembrare strano e traballante, ma il risultato è unico”, gli fa eco Dan.

Che fine ha fatto la musica ambient?

Ma, con questi modi di ascolto, e pure con la musica “rilassante” strumentale prodotta automaticamente dall’intelligenza artificiale, ha ancora senso parlare di “Ambient?” “I nomi dei generi possono essere problematici, soprattutto quando sono molto prescrittivi. Eno intendeva la musica ambient in una maniera molto precisa: suoni che possono stare sullo sfondo, essere ignorati, ma anche dare soddisfazioni e piacere se ascoltati con attenzione. Mentre penso che ciò che le persone chiamano ambient oggi sia essenzialmente musica elettronica rilassante fatta con i synth. Una sorta di incenso sonoro…In questo album in un certo senso, più che a rilassare, punto al cuore, ai processi emotivi”.

Per alcune persone, soprattutto per chi arriva dalla musica suonata con strumenti tradizionali, c'è ancora una distinzione tra musica acustica e musica elettronica:  la musica acustica sarebbe vera musica e la musica elettronica, la musica fatta dalle macchine no. “Per me il suono è suono. La musica è musica. Passare da un piano, ad un orchestra ad un software è un processo organico: qualsiasi strumento, qualsiasi arrangiamento, qualsiasi configurazione di elettronica e acustica è ugualmente interessante. Chi separa anche le fonti sonore si sbaglia: in fin dei conti la musica riguarda come fa sentire l’ascoltatore".

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