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«HOT BUTTERED SOUL - Isaac Hayes» la recensione di Rockol

“Hot buttered soul”: Isaac Hayes sale in cattedra

Fu questo l’album più rivoluzionario del genere?

Recensione del 29 nov 2022 a cura di Redazione Soul

Voto 9.5/10

La recensione

La "Isaac Hayes Memorial Highway" è un tratto della Interstate 40 all’altezza della contea di Shelby che parte dal Sam Cooper Boulevard di Memphis: la strada fu inaugurata il 20 agosto 2010, giorno in cui Isaac Hayes avrebbe compiuto 68 anni – se solo non fosse morto quasi esattamente due anni prima per problemi cardiaci.

Da ultimo, le più giovani generazioni avevano imparato a conoscerlo grazie alla sua presenza in South Park.

I fans del funk e del rhythm and blues, invece, già lo identificavano da tempo con il suo capolavoro “Shaft”, che gli aveva fruttato un Grammy per la migliore colonna sonora a inizio anni Settanta.

Ma la sua grandezza era stata edificata negli anni Sessanta, quando si era affermato come uno dei padri del Memphis Soul, grazie al suo lavoro di autore, compositore, session man e artista per la leggendaria etichetta Stax-Volt Records.

Quel decennio si era concluso col botto, quando era uscito dalle retrovie e salito in cattedra, consegnando agli annali un album tanto anomalo e inatteso quanto strepitoso.

Isaac Hayes

Nato in Tennessee e rimasto presto orfano, Isaac Hayes fu allevato dai nonni e a quindici anni divenne musicista professionista, impegnato con varie band sia come poli-strumentista che come cantante; nel 1962, suonando il sax con i Mar-Keys dopo avere rifiutato diverse borse di studio da vari college, scelse di lavorare per provvedere alle necessità della sua famiglia ed iniziò anche la sua cavalcata nella discografia, diventando una presenza fissa negli studi della Stax in numerose sessioni, alcune delle quali a beneficio di una leggenda come Otis Redding.

In breve Hayes divenne il tastierista della house band della label ma, soprattutto, diede origine a un sodalizio con il co-autore David Porter: la partnership avrebbe generato capolavori imperituri ed Hayes-Porter avrebbero firmato circa 200 canzoni, illuminando in particolare la carriera del duo Sam & Dave con i classici "Soul Man" e "Hold on, I'm Comin'".

Hot Buttered Soul

Nel 1967 una tragedia colpì il mondo della Stax, il mondo del soul e il mondo in generale. In un incidente aereo perse la vita Otis Redding insieme alla quasi totalità dei Bar-Kays, così tutti restammo orfani di colui che era destinato a diventare il maggiore soul man in assoluto.

Come se non bastasse, a Memphis piovve sul bagnato: nel 1968 al lutto si aggiunse, per la Stax, un gigantesco problema economico che ne mise a rischio la stessa esistenza: la perdita dei diritti del suo catalogo (accaparrato dalla Atlantic). Il direttore dell’etichetta, Al Bell, cercò allora di costruirne uno interamente nuovo pubblicando in massa decine di album e singoli in poche settimane. Un azzardo che pagò, ma nella maniera più inattesa.

Tra quelli firmati da tanti nomi di artisti altisonanti, infatti, il disco che gettò un vero salvagente alla Stax ritraeva in copertina il primo piano di un calvo ingioiellato d’oro con grossi occhiali da sole: era Isaac Hayes, quell’autore e produttore di successo il cui debutto solista (“Presenting Isaac Hayes”), però, era stato un fiasco solo un anno prima. Eppure il secondo disco, tanto distante nell’approccio e nello stile quanto il look del suo artefice lo era dallo stile afro imperante all’epoca, vendette un milione di copie. Era il 1969 e Hot Buttered Soul” – due lati di un vinile con solo quattro, chilometrici, inconcepibili e sorprendenti brani – divenne un’icona del genere, tra i cui solchi affondano qualche radice tanto la disco quanto il rap.

Hot Buttered Soul”, registrato con i Bar-Keys (due membri superstiti e nuovi componenti della formazione) e prodotto da Al Bell, Allen Jones e Marvell Thomas (figlio di Rufus) negli Ardent Studios sulla National Street di Memphis, vede Isaac Hayes all’organo Hammond e alla voce, mentre dirige la band: il disco - che prima scattò direttamente in vetta alla R&B chart e poi al numero 8 della Billboard 200 - nel tempo si afferma come una pietra miliare del soul. “Hyperbolicsyllabicsesquedalymistic” è l’unico pezzo firmato da Hayes. Come il titolo di questo brano, ma in un modo diverso e più profondo, anche il resto dell’album è quanto di più inatteso, contro-intuitivo e anti-commerciale si possa associare ad un album iconico e di successo.

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L’inizio: “Walk on by”

Prendi un classico di Burt Bacharach (e di Hal David) reso celebre da Dionne Warwick, smontalo pezzo a pezzo, denudalo del suo impeccabile gusto pop e trasfiguralo in una jam infinita che sa di gospel: è il caso di “Walk On By”, 12 minuti torridi per sensualità e arrangiamenti che costruiscono un climax che non arriva mai e tiene l’ascoltatore sulle punte dei piedi. Ne sono protagonisti la chitarra di Michael Toles, il cui suono si scolpirà nella pietra portando il Memphis soul in direzione di una psichedelia tutta hendrixiana, e l’Hammond di Hayes, che letteralmente ulula e guaisce. Che groove. Canzone focosa che, cullata dalla voce caldissima dell’artista, lo lancia come il primo “love man” o “ladies man” dell’immaginario musicale nero.

La fine: "By the Time I Get to Phoenix"

Se 12 minuti sembravano avere sbriciolato le consuetudini dell’epoca, il quarto e ultimo brano di “Hot Buttered Soul” – un’altra cover trasfigurata dal trattamento-Hayes – durerà una volta e mezzo tanto, e prenderà forma dopo un monologo di 8 minuti.

"By the Time I Get to Phoenix", oltre 18 minuti di durata, vede Hayes nei panni di Elmore Leonard tanto è minimalista la sua narrazione di ciò che la canzone – alla fine! – si appresta a raccontare mentre il basso, l’organo e la batteria ipnotizzano con un ronzio iniziale che, in un crescendo geniale, diventa poi un pattern, poi un groove. Poi la preparazione è ultimata. Hayes ha mormorato raccontando ogni dettaglio e finalmente arriva il momento in cui la sua monumentale intro lascia spazio all’originale di Jimmy Webb di cui, a proposito, sta proponendo una cover fino a quel punto non riconoscibile. Quel lento e inesauribile build up ha edificato un soul esplosivo che può finalmente partire. Il rap ante-litteram cede il passo a un’anteprima di quel Barry White d’annata che si apprezzerà cinque o sei anni dopo.

In mezzo

"Hyperbolicsyllabicsesquedalymistic" porta il funk – ancora una volta – a una durata record. Che jam, per l’unico brano originale arricchito da un testo “tongue in cheek” e contorto ma denso di umorismo, latinismo e eccentricità che si sprecano. Prende bellamente per i fondelli chiunque usi, senza esserne all’altezza, terminologia altisonante.

"One Woman", di Charles Chalmers e Sandra Rhodes – è cortissima a confronto. Supera, infatti, solo i cinque minuti e, a questo punto, suona come una ballata straordinariamente ordinaria e convenzionale, totalmente r’n’b.

Le stigmate di un capolavoro

Nel 1969 portare il soul in un’altra dimensione significava esplorare terreni che Stax e Motown avevano ignorato. Nessuno sapeva quali potessero essere, salvo abbandonare il certo per l’incerto. A quanto pare, invece, Isaac Hayes lo sapeva: il Southern Soul nelle sue mani di padre del genere divenne più funky, ma non patinato come il Detroit Soul. Ornato, semmai; grandioso, orchestrale, perfino opulento. Con tanta aria in mezzo per quella chitarra che usava un po’ di wah wah e lasciava intuire certi toni della blaxploitation acquattati dietro l’angolo della storia del soul. Per un organo che sembrava ripartire da Ray Charles per intraprendere un nuovo viaggio.

E poi la lunghezza dei brani, già una rivoluzione di per sé che poi, nel contesto di ciò che le due etichette storiche del genere avevano costruito nel decennio precedente, fu ancora superiore e regalò al soul spazi inattesi e sconfinati.

Sì, alla fine rendendo psichedelico il r’n’b Hayes lo elevò a una classe superiore riuscendo nel miracolo di lasciare che “Hot Buttered Soul” suonasse come una gemma grezza.

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Tracklist

01. Walk On By (12:00)
02. Hyperbolicsyllabicsesquedalymistic (09:36)
03. One Woman (05:09)
04. By The Time I Get To Phoenix (18:44)

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